Varie, 7 agosto 2006
LOSI
LOSI Giacomo Soncino (Cremona) 10 settembre 1935. Ex calciatore. Difensore (terzino-libero), detto ”er core de Roma” o ”Palletta”, è stato una bandiera della Roma, con la quale ha vinto nel 61 la coppa delle Fiere. Undici presenze in nazionale • «Se parliamo di elevazione, in senso strettamente calcistico, possiamo dire che lui, basso basso, era uno di quelli che arrivavano in alto, più in alto della testa di un colosso – ”Ma come fai?” - chiamato John Charles. A Giacomo Losi, terzino della Roma e della Nazionale, tutti hanno però sempre riconosciuto anche un altro tipo di elevazione: chiamiamola una levatura, basata su qualità umane, caratteriali, morali. Difficile spiegare, altrimenti, come abbia fatto un giocatore nato e cresciuto in Lombardia a conquistare l’affetto di una città che ancor oggi lo ricorda con un soprannome che è una leggenda: ”Core de Roma”. E difficile spiegarsi non tanto il record assoluto di presenze in maglia giallo rossa [...] quanto un altro primato, difficilmente conciliabile con le caratteristiche di un difensore che non ha mai tirato indietro una gamba. Losi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ha giocato quindici campionati, senza mai essere espulso. Insomma, un testimone attendibile, che appena festeggiato il mezzo secolo dal suo esordio in serie A, può raccontare, senza fronzoli, com’era il calcio d’una volta. L’uomo della celebre figura Panini - nato a Soncino, provincia di Cremona, nel 1935 - oggi è il direttore sportivo di una piccola società che gestisce una scuola di calcio per ragazzi dai sei ai quattordici anni, la Valle Aurelia 87. L’esordio in serie A risale, s’è detto, a più di cinquant’anni or sono: un Roma-Inter del 1956, dove aveva annullato uno degli attaccanti più insidiosi del tempo, ”Veleno” Lorenzi. Da allora tutto è cambiato. ”Le porte avevano i pali quadrati. E su quei campi non eri mai sicuro dei rimbalzi. Pure il pallone era diverso - ecco perché qualcuno giocava con un fazzoletto annodato alla testa - con una cucitura che se ti prendeva in fronte ti sfregiava. In campo andavi in undici. Sostituzioni non ce ne erano e le panchine erano vuote. Ti facevi male? Stringevi i denti e cercavi di rimanere in campo”. A proposito, si ricorda un servizio della settimana Incom intitolato ”Il gol dell’azzoppato”? Nei fotogrammi, in bianco e nero, c’era lei, rimasto in campo con una gamba spaccata, che buttava dentro di testa, all’ultimo minuto, il gol di un 3 a 2. Una rete storica. Specie pensando che in tutta la sua carriera ”Core de Roma” di reti ne ha segnate solo due. ”Allora non ci si muoveva dalla propria posizione. Eri terzino? Rimanevi indietro. Il gioco avanzava reparto per reparto. Io davo la palla ai mediani, che la davano agli attaccanti. Un difensore non superava la metà campo. Io sarei stato anche portato. Ma mi frenavo. E se me lo dimenticavo ci pensavano gli altri: ”Ma dove vai?! Fermati Giacomo!”. All’idea di tirare in porta mi veniva quasi paura. Gli attaccanti, da parte loro, non tornavano mai. Il portiere, che oggi comanda tutta la difesa, non usciva mai dall’area piccola e non usava i piedi, nemmeno per battere la rimessa dal fondo. Uno dei primi a avanzare era stato Ghezzi: e per questo lo chiamavano il kamikaze. E chi ha mai sentito parlare di tattica, o di raddoppi? Le prime innovazioni sono arrivate solo con il catenaccio di Nereo Rocco e l’introduzione del libero. Lo scontro era uno contro uno. Non c’era pressing. La tecnica dei grandi campioni così contava di più. E i bravi potevano giocare anche da fermi, mica come ora che devi essere sempre veloce, con le gambe, ma anche con il pensiero”. ”Io ho dovuto cominciare a giocare di nascosto. Oggi, invece, vedi tanti genitori assatanati. Sembra che i figli debbano sempre arrivare in serie A. Urlano, contestano, si picchiano tra loro. E poi ai miei tempi nessuno ti insegnava niente. Dovevi guardare i più bravi e inventarti qualcosa. Come ho cominciato a giocare sul serio? Beh, la Soncinese faceva il campionato di prima categoria. Un giorno si ammala un giocatore. Così mi mandano a chiamare. Io non avevo ancora quattordici anni, non avrei potuto giocare... Ma non fa niente, mi hanno detto: quando l’arbitro fa l’appello tu fai finta di essere Bugli... Rispondi Andrea, ti giri, gli mostri il numero di maglia sulla schiena. stata anche la prima volta che sono andato sul giornale, perché il giorno dopo sulla ”Provincia di Cremona’ parlavano dell’ottima prova di Bugli”. Dalla Soncinese al Cremona. Dal Cremona alla Roma, per sette milioni di lire (’I primi mesi, da solo, sono stati duri. Andavo alla stazione Termini a vedere partire i treni. Ma poi mi sono innamorato di questa città”). Dalla Roma alla Nazionale: la prima partita nel 59, contro la Spagna, marcatore di Gento; l’ultima nel ”62, al campionato del mondo in Cile. ”Facevo il terzino. Ma in realtà per me all’inizio era indifferente. Mi avevano chiesto: dove sai giocare? Ala, mezz’ala, mediano... dove mi mettete. Mancava il terzino. Vada per il terzino. Ero basso. Ma avevo una grande scelta di tempo. Il primo allenatore che trovai a Roma - negli anni Cinquanta andavano molto gli stranieri - fu mister Karver, un inglese. Poi un ungherese, Sarosi. Poi un altro inglese, Stock. Erano dei grandi motivatori. E ti stavano addosso: alle dieci di sera tutti a casa. Non si curavano troppo della tecnica, o della tattica. Ti davano la carica, ma non studiavano gli avversari. Io scendevo in campo e non sapevo chi mi sarei trovato di fronte. Il primo allenatore italiano, Foni, era già diverso. Poi c’è stato il periodo dei maghi. Oronzo Pugliese, il mago di Turi. E Helenio Herrera, che riempiva lo spogliatoio di cartelli con scritto ”Siamo i più forti’. La dote più importante di un calciatore, allora e oggi? La testa. La concentrazione. Ho giocato contro tanti grandi campioni, facendo la mia parte; gli attaccanti che mi fregavano erano sempre quelli che prendevo alla leggera”. ”Di campi appena passabili ce n’erano davvero pochi. Al Sud poi... Il divario con le grandi però allora era enorme. E il fattore campo per le squadre minori era l’unica speranza di strappare un pareggio. In quei campi, specie se aveva piovuto, dovevi solo colpire di prima, senza mai portare la palla: sparare lungo e pedalare. Anche le trasferte all’estero erano dure, specie in Francia e Inghilterra, dove eravamo ancora gli italiani della guerra. Si combatteva. Ma certe scorrettezze, come le trattenute per la maglia, proprio non si vedevano. E mica potevi discutere con l’arbitro. Ricordo certe occhiatacce di Lo Bello... La sudditanza? Beh, c’era e a volte nemmeno troppo mascherata. Andava a protestare l’altro capitano? E l’arbitro tutto educato: ”Mi dica signor Boniperti’. Cinque minuti dopo andavo io? E mi cacciava via in malo modo. Però ce n’è stato anche uno che una volta, in un finale combattutissimo, mi ha sussurrato di nascosto: ”Forza Losi’. Altri tempi, sì... Come è finita la mia carriera? Mi hanno liquidato con una lettera, consegnata dall’usciere. Tanti saluti. Promettevano, sì, di farmi una festa d’addio. Ma ancora aspetto”» (Luca Villoresi, ”la Repubblica” 8/1/2007).