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 2006  agosto 06 Domenica calendario

GARRONE

GARRONE Matteo Roma 15 ottobre 1968. Regista. Figlio del critico teatrale Nico Garrone e di una fotografa, sogna una vita da pittore. Infatti frequenta il liceo artistico. Ma è il cinema, a metà degli anni Novanta, che gli dà la notorietà. Il suo corto «Silhouette» piace a Nanni Moretti che lo premia con il Sacher d’oro. Seguono i lungometraggi «Terra di mezzo»(1997),«Ospiti» (1998), «Estate romana » (2000). Ma è con «L’imbalsamatore» (2002), presentato a Cannes e bene accolto dalla critica, che Garrone si impone raccontando l’ambiguo rapporto frauntassidermista nano e ilsuo assistente nel quale irrompe una giovane sbalestrata. Il seguente «Primoamore»(2004), ambizioso e amaro, conferma le sue qualità di stile, ma il pubblico non risponde. Ci vorrà «Gomorra», dal libro di Saviano, perché arrivi il successo pieno • I suoi film traggono spunto dalla cronaca: L’imbalsamatore era ispirato all’omicidio nel 90 di Domenico Semeraro, detto il ”nano” di Termini; Primo amore alla vicenda di Mariolini, l’antiquario di Brescia che uccise la fidanzata dopo averla portata all’anoressia; prossimamente ha in programma un film su Pietro De Negri, meglio noto come ”er canaro” (L. Jatt., ”Il Messaggero” 8/8/2006) • «[...] è uno dei rari autori, non solo italiani, di cui è stato appassionante seguire il percorso e la crescita [...] Ho reagito alle sue opere con una certa irritazione iniziale – perché mi pareva che egli scavasse con i modi del documentario più accattivante e circuente nella realtà di marginali da ”vendere” alla curiosità compiacente di un pubblico ”morettiano”. Ma mi colpiva positivamente un atteggiamento assai nuovo, per la nostra tradizione cinematografica stracolma di registi e sceneggiatori che si fanno vanto di un moralismo ipocrita, che hanno l’indignazione facile, che si sentono autorizzati alla più roboante denuncia stabilendo, con quale autorità!?, dove sta il bene e dove sta il male e che mai si guardano allo specchio per vedere la trave che hanno negli occhi. Garrone non denunciava, non si sentiva distante dai suoi personaggi o più in alto di loro, e li raccontava – come aiutandoli a mettersi in scena – con curiosità non viziosa, con solidale immediatezza. Fu il suo ultimo film che poté sembrare ancora un documentario, Estate romana, così impregnato di improvvisazione e di teatro (tre dei suoi quattro protagonisti – Rossella Or, Monica Nappo, il compianto Victor Cavallo, ma forse anche il giovane Sansone – venivano da lì, da un campo per il quale Garrone ha dimostrato sempre molta attenzione e sensibilità, anche per tradizione familiare), a farmi convinto del suo talento, della sua originalità rispetto alla mediocre e compromessa situazione del cinema italiano di quegli anni, in particolare di quello ”di sinistra”. Il documentario, il teatro: il cinema. Ma con uno sguardo nuovo sulla realtà, che non se ne faceva schiavo né voleva manipolarla, che semplicemente la mostrava e interpretava facendola sua. Un autore nasceva, che esplose con L’imbalsamatore. Quel film fu per me una rivelazione. Intanto, raccontava un paesaggio, un ambiente fisico che conoscevo, come nessuno era mai riuscito a raccontarlo. Ma non si accontentava di quello, e contrapponeva una periferia assolata e sconquassata, un poco o molto fetida, meridionale, a quella ordinata e opaca di una città del Nord. Un ambiente di pessima qualità di fronte a un ambiente senza qualità apparenti. Due Italie. E due Italie offrivano al giovane protagonista de L’imbalsamatore le loro attrazioni, le loro possibilità: l’Italia malavitosa e l’Italia onesta. Le attrazioni di un Male di raro squallore e di un Bene altrettanto e forse più squallido! (Si trema al pensiero di cosa avrebbero potuto fare di questo soggetto un Rosi o un Risi junior, o un Rulli e Petraglia). L’imbalsamatore mi sembrò un quadro perfetto dei dilemmi della nostra ”crescita”, o meglio, della crescita di ciascun nuovo nato dentro il contesto della nostra decadenza di civiltà, della dilagante amoralità di tutti, ancora più preoccupante dell’immoralità dichiarata di tanti. Osai paragonare quel film, come quadro di un momento storico fondamentale, a La dolce vita, per dire in quale considerazione tenessi ora Garrone e quanto mi aspettavo ormai da lui, come spettatore e come cittadino. Garrone era un Autore con la maiuscola, uno dei pochissimi rimasti nel nostro cinema. Primo amore mi preoccupò alquanto, perché perdeva quella sorta di partecipe distanza che diventava stile, perché si lasciava affascinare dal precipizio di un rapporto patologico, perdendo di lucidità anche se non di passione, anzi. Un Garrone estremamente maturo nella conduzione di una regia provocatoriamente diversa da quelle cui il cinema di questi anni ci ha abituati, nella convinzione di una sgradevolezza che disagi lo spettatore invece di circuirlo. Ma era il soggetto a non convincermi, chiuso e non aperto, senza contrasti e rimandi oltre se stesso, oltre la patologia. Di tutta evidenza, quel film a Garrone era necessario farlo, a quel punto, come per esaurire una pulsione, accettandola e sprofondandovi, e come esercizio di stile, come messa alla prova di un linguaggio. Si restava ancora una volta stupefatti dalla sua coerenza, e però si era respinti da una non nascosta richiesta di complicità. E se insomma l’ammirazione cresceva, si pensò fosse giusto seguir da lontano, aspettare nuove prove. Non so cosa Garrone stesse preparando quando esplose il caso Saviano e l’abilissimo Procacci comprò i diritti cinematografici di Gomorra pensando proprio a Garrone (Procacci sarà benedetto a lungo per questa scelta – la migliore di una grande carriera talora troppo astuta). Tornando a un paesaggio che in parte conosceva grazie a L’imbalsamatore, Garrone capì immediatamente che stavolta non si sarebbe trattato semplicemente di ”un film” e che avrebbe dovuto trattarsi di un’impresa di radicale novità – formale e morale. Con l’aiuto degli abituali e bravissimi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, cercò il conforto e le conoscenze di Maurizio Braucci, scrittore napoletano che è più di uno scrittore, che è anche un ”operatore” socio-pedagogico-culturale presente nella parte più disgraziata e confusa della realtà napoletana e campana, e di Gianluigi Toccafondo, disegnatore svagato e poetico che però, nel bellissimo disegno animato La piccola Russia, s’era accostato a inquietudini e malattie della psiche dentro un contesto sociale ben definito; e via via si andò creando attorno a loro, in una lunga preparazione e in una lunga lavorazione, un gruppo di collaboratori, informatori, operatori, gruppi di intervento, amici, che seppe aiutarlo a ”studiare il territorio” e ad aprirsi alla sua conoscenza diretta, coinvolgere gruppi e persone, coinvolgersi. Gomorra è un capolavoro anche per questo, per il metodo di lavoro, per il rapporto degno delle grandi imprese cinematografiche più collettive tra l’Autore e un Gruppo e un Ambiente. E un’Epoca. Su questo film molto si è scritto e molto si potrebbe ancora dire: sulla fotografia (con Garrone alla macchina), il cadrage, il rifiuto della profondità di campo, il cinemascope, il senso della realtà urbana degradata e della degradazione agricola, l’architettura e urbanistica loro malgrado surreali, la scelta del piano sequenza, la direzione degli attori stimolante e accettante ciò che gli attori hanno da suggerire e che costruisce, assieme a loro, la musica dal vero (il rifiuto secco delle facilità e dei ricatti morriconiani, piovaneschi), l’intreccio di più vicende e personaggi senza apparente legame tra loro... Un film straordinario merita analisi straordinarie, che questo libro sa offrire. Ma oltre questa eccezionale lezione di metodo, oltre la bellezza di un’opera di cui l’Autore ha il merito principale ma poco avrebbe potuto se non avesse avuto l’umiltà e la capacità di ”costruire insieme”, la qualità precipua di Gomorra resta quella della descrizione di un mondo che il cinema, la letteratura, il giornalismo non hanno mai, o quasi mai nel caso del giornalismo, saputo raccontare con onestà, forse soltanto perché gli Autori si consideravano ed erano estranei a quella realtà, perché se ne consideravano lontani e superiori. I ”salvati” contro i ”sommersi”, anche se tra i sommersi tanti sono i complici» (Goffredo Fofi, ”Il Messaggero” 6/1/2009).