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 2006  agosto 03 Giovedì calendario

Quanto ha vissuto Leopardi? L’espresso, giovedì 3 agosto Un ’topos’ ovvero un luogo comune di tutta la storia della cultura occidentale è quello della superiorità degli antichi, rispetto a cui siamo nani sulle spalle di giganti

Quanto ha vissuto Leopardi? L’espresso, giovedì 3 agosto Un ’topos’ ovvero un luogo comune di tutta la storia della cultura occidentale è quello della superiorità degli antichi, rispetto a cui siamo nani sulle spalle di giganti. La sua forma degenerata è quella dei vari tradizionalismi e occultismi contemporanei per cui le antiche civiltà scomparse (come Atlantide o Mu, per non citare gli Egizi che avrebbero addirittura scoperto l’elettricità, come a dire che ’c’era una Volta’) possedevano conoscenze che noi ormai abbiamo perdute. Accanto al luogo comune della superiorità intellettuale degli antichi ha prosperato a lungo anche quello della loro superiorità fisica. Il Medioevo è pieno di osservazioni sulla bella statura degli antenati rispetto alla piccolezza dei contemporanei (e forse talora avevano ragione, ricordando i bicipiti dei barbari germani rispetto agli scheletrucci degli uomini imbolsiti del basso impero, per non dire dei nanerottoli dell’alto Medioevo, rattrappiti e malaticci a causa di pestilenze, carestie, insufficienza di cibi ad alto contenuto proteico come la carne e alcuni legumi scomparsi dalle colture europee sino alle soglie del Mille). L’idea era però nel complesso falsa. Sino al secolo scorso i nostri antenati erano in genere molto più piccoli di noi e per convincersene basta andare a visitare un museo in cui si espongono i letti dei monarchi di un tempo, anche senza considerare Napoleone, letti in cui uno di noi non potrebbe riposare che a gambe rattrappite. In passato la durata media della vita era di quarant’anni, mentre oggi i gerontologi fanno iniziare la vecchiaia a settantacinque anni - per cui io sono ancora un anziano giovanotto che tra sei mesi sarà un giovanissimo vecchietto - e non conta che io possa morire poi a settantasei anni per infarto o cadendo da una scala, perché c’è gente che muore per infarto in discoteca anche a trent’anni. Ho trovato una bella e lucida riflessione sulla durata della vita nello ’Zibaldone’ di Leopardi, e ve la comunico - fedele al principio che ciò che rende attuale una delle mie Bustine è che essa nasca da una riflessione fatta ieri. E ho scoperto ieri che il non sanissimo giovanetto di Recanati, nel luglio 1821, rifletteva sul fatto che, secondo la vulgata comune, nell’antichità la vitalità fosse maggiore che ai tempi suoi, e concludeva che, in assenza di notizie precise, tra la lunghezza della vita degli antichi e quella di moderni ci fosse ben poco divario. Egli non disponeva delle nostre statistiche, e non sapeva che la durata della vita umana si stava progressivamente allungando (anche se non per lui). Osservava giustamente che era impossibile che gli antichi avessero potuto vivere più che gli uomini dei tempi suoi, ma non gli passava per la mente che stesse avvenendo il contrario. Però annotava che "la maggior vitalità del tempo antico non è quanto alla potenza, ma quanto all’effetto, vale a dire, la realizzazione della potenza", e intendeva dire che, se gli antichi non vivevano più a lungo dei moderni, in un certo senso vivevano di più perché "si accostavano più di loro ai confini stabiliti dalla natura" e ai loro tempi "le malattie erano meno numerose. meno violente.. più curabili". Sbagliava anche qui, ovviamente. Osservava che le morti naturali erano un tempo meno immature e si sbagliava ancora, perché mio nonno materno è morto a quarant’anni (più o meno l’età a cui è morto Leopardi) di spagnola, malattia che oggi sarebbe curabile con qualche medicamento adeguato. E infine si sbagliava ritenendo che gli antichi conservassero il vigore e la sanità "dove oggi non si conservano", non comprendendo che ai tempi suoi un cinquantenne era un vecchio mentre oggi potrebbe iniziare una nuova vita (Saul Bellow ha generato a ottant’anni) e oggi a cinquant’anni una donna può ancora apparire desiderabilissima. Insomma, il povero Giacomo, che la natura non aveva favorito, si considerava ultimo testimone di una umanità condannata, senza sapere che quasi due secoli dopo, all’età in cui lui scriveva (ventitré anni!), i giovinetti si sarebbero ancora domandati se non fosse l’ora di terminare gli studi, e all’età in cui lui è poi morto si sarebbero chiesti se non fosse ora di entrare nell’età adulta, rinunciando alla mezza pensione (lavaggio e stiratura compresi) in famiglia. Ma quello che colpisce è l’osservazione conclusiva: pur ammettendo che "nessuno in particolare potesse vivere più lungamente di quel che possa viversi oggidì" Leopardi non rinunciava pensare che "la somma della vita" fosse maggiore nel tempo antico. E su questo non mi sentirei di dargli torto. Non solo Giacomo, nei suoi scarsi quarant’anni di vita, ha certamente vissuto più intensamente di ciascuno dei suoi lettori, ma nasce il sospetto che in un’epoca in cui si viveva meno, ma più adagio, si accumulassero esperienze più intense di quelle che noi oggi dissipiamo. Noi viviamo più a lungo, ma troppo in fretta, e non facciamo in tempo a digerire la vita. Umberto Eco