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 2006  agosto 03 Giovedì calendario

Intervista a Olmert. Corriere della Sera, giovedì 3 agosto Gerusalemme. E’ in completo scuro e cravatta, come gli israeliani l’hanno quasi sempre visto in questi ventidue giorni di conflitto

Intervista a Olmert. Corriere della Sera, giovedì 3 agosto Gerusalemme. E’ in completo scuro e cravatta, come gli israeliani l’hanno quasi sempre visto in questi ventidue giorni di conflitto. Anche tra i marinai della corvetta Eilat, Ehud Olmert si è presentato martedì in camicia azzurra e pantaloni chiari. Niente elmetti, divise militari o giubbotti antri-proiettile: ha scelto di non fare concessioni all’immagine del premier-guerriero. E forse anche per questo, chiede subito di Marco Materazzi («che cosa ha detto davvero a Zinedine Zidane?») per dimostrare quello che ripete durante l’intervista nell’ufficio a Gerusalemme: il suo sogno resta diventare il primo ministro normale di un Paese normale. Un leader che possa dire – senza doversi scusare perché può sembrare inappropriato – «sono felice per la vittoria dell’Italia e dispiaciuto che i Mondiali siano finiti in quel modo, con l’immagine di un grande campione che tira una testata». Adesso è il leader di un Paese in guerra. Dove il Liverpool e la Dinamo Bucarest non vogliono venire a giocare e dove i Depeche Mode hanno cancellato l’unico grande concerto dell’estate a Tel Aviv. Calcio e musica. Durante la campagna elettorale, avrebbe potuto essere lo slogan di Kadima, il partito che ha fondato assieme ad Ariel Sharon, dopo la scissione dal Likud. Ora suonano come parole surreali. «E’ vero, ho promesso che avrei trasformato Israele in un Paese dov’è divertente vivere. E lo diventerà. Non si può giudicare da questo momento. C’è un processo storico che si deve compiere. Gli israeliani sono orgogliosi di una nazione che ha avuto il coraggio di difendersi, di combattere e soffrire per la libertà. L’Hezbollah non aveva alcuna disputa territoriale con noi, il Libano non aveva alcuna disputa ideologica con lo Stato ebraico. I fondamentalisti sciiti vogliono solo distruggerci. Potete immaginare milioni di italiani a Milano, Venezia, Genova che stanno nei rifugi per 22 giorni perché dei terroristi fanno cadere in continuazione razzi sulle loro teste? Come avrebbe risposto l’Italia, se fosse passata attraverso quello che stiamo soffrendo noi?». Racconta di non essere mai andato a trovare Sharon, che giace in coma dal 4 gennaio, quando è stato colpito da un ictus. In questi giorni tutti evocano il generale statista che nel 1982 aveva portato il Paese nelle sabbie mobili di un’altra guerra in Libano, da cui Israele era riuscito a districarsi solo diciotto anni dopo. «Perché avrei dovuto andare all’ospedale, con i fotografi al seguito? Non mi può parlare e non può ascoltare quello che avrei da dirgli. Sarei stato accusato di sfruttare la sua immagine per propaganda e pubbliche relazioni. Parlo spesso con i figli perché mi diano notizie». Premier da quattro mesi, 60 anni, è consapevole che gli analisti israeliani scrutano ogni mossa e scelta tattica della coppia di «civili», lui e il ministro della Difesa Amir Peretz. Dice di aver trovato sostegno in famiglia, dove la moglie Aliza e i cinque figli (di cui una adottata) rappresentano l’ala pacifista. «Veramente anch’io sono contro la guerra. Ma per questa guerra siamo tutti d’accordo sul diritto di Israele all’autodifesa». Alcuni commentatori scrivono che avreste dovuto dichiarare vittoria e fermare il conflitto, quando il G8 ha votato un documento che riconosceva le esigenze di Israele. Accusano lei e Peretz di essere andati avanti per dimostrare di essere più risoluti e coraggiosi dei vostri predecessori. «Qualcuno dice che dovevamo fermarci, altri che dobbiamo continuare ancora per settimane. E’ questione di prospettive. Quello di cui sono sicuro è che una tregua dopo il vertice del G8 sarebbe stata disastrosa e mi sono opposto. E’ necessario un processo politico che protegga i frutti della vittoria e permetta di dispiegare una forza militare multinazionale, che sia efficace e in grado di bloccare l’Hezbollah, quando gli estremisti tenteranno di riprendere il controllo del Sud del Libano». Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, dice di voler arrivare a una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu e a un cessate il fuoco entro la fine di questa settimana. Shimon Peres, vicepremier israeliano, ha risposto che i combattimenti dureranno ancora settimane. «Ho appena parlato con Condoleezza Rice e non credo pensi a una tregua nei prossimi giorni. E’ più probabile che si arrivi a un voto delle Nazioni Unite la settimana prossima. Il processo è lungo: devono trovare un quadro politico per l’accordo, poi presentare un documento al Consiglio di Sicurezza ed essere certi che il piano possa essere attuato. Da parte nostra, coopereremo con qualunque proposta ragionevole». Passeranno giorni o settimane prima di una tregua? «Non dipende da noi. Le nostre truppe non smetteranno di combattere fino a quando la forza internazionale non verrà dispiegata sul terreno». Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema è convinto che le tappe vadano rovesciate. Prima il cessate il fuoco, poi arriva la forza di pace. «Naturalmente deve esserci una data per il cessate il fuoco stabilita prima, ma la fine effettiva dei combattimenti dovrà essere molto vicina al posizionamento delle truppe internazionali. Diciamo che se noi smettiamo di sparare a mezzanotte, loro devono essere schierati sul terreno al nostro posto entro le due del mattino. Se lasciamo passare giorni, gli Hezbollah avranno il tempo di riprendere il controllo delle aree e questo creerebbe una realtà sul campo molto più complessa da gestire». L’Italia è pronta a partecipare a una missione con un mandato di peacekeeping, non a un’operazione sul modello di Enduring Freedom in Afghanistan. Quali caratteristiche deve avere per lei la forza multinazionale? «Devono essere unità combattenti, per impedire che lo Stato israeliano si ritrovi nella stessa situazione che sta vivendo in questi giorni. Nel Sud del Libano ci sono già i Caschi blu dell’Unifil e non sono mai stati efficaci». Quindi lei pensa a una missione come Enduring Freedom? «Sì, sì». Il Papa ha definito agghiaccianti le immagini dei bambini libanesi uccisi a Cana e l’editorialista Sever Plocker ha scritto su Yedioth Ahronoth che di fronte a quelle morti gli israeliani devono solo chiedere perdono. E’ pronto a domandare perdono? «Ho espresso il mio profondo dispiacere e rincrescimento per la morte di innocenti. Quando sfortunatamente colpiamo persone non coinvolte, lo consideriamo un fallimento. Al contrario, l’Hezbollah ha un solo obiettivo ed è proprio quello di ammazzare i civili. Qualche anno fa nella guerra del Kosovo i bombardamenti hanno ucciso centinaia di civili e nessuna delle nazioni coinvolte nell’attacco era stata assalita prima dalla Serbia. Quindi suggerisco di non predicare allo Stato d’Israele come difendersi». Gli analisti israeliani scrivono che aver bombardato l’aeroporto di Beirut, le centrali elettriche e le autostrade ha spinto i moderati in Libano a unirsi agli Hezbollah. «Prima della guerra, questi "moderati" hanno fatto una coalizione di governo con gli Hezbollah. Non sono stati spinti a nulla che non avessero già fatto da soli. E’ un’altra ipocrisia. Israele ha dovuto distruggere le infrastrutture che i fondamentalisti sciiti avrebbero potuto usare nelle operazioni militari contro di noi. Abbiamo bersagliato le strade verso la Siria, perché da lì sarebbero arrivati i rifornimenti di armi. Abbiamo bloccato il traffico aereo perché altrimenti l’Iran avrebbe inviato altri armamenti. Volevamo anche impedire che i due soldati rapiti venissero portati fuori dal Paese». Gli europei stanno aprendo un dialogo con Siria e Iran. Credono che i due Paesi possano aiutare a risolvere la crisi. «L’Iran sta solo lottando per ottenere armi non convenzionali e il suo presidente Mahmoud Ahmadinejad ripete che Israele deve essere cancellata dalla mappa. Su quale base si costruisce la cooperazione con l’Iran? Il vostro premier Romano Prodi, un buon amico, mi ha detto di aver contattato il presidente siriano Bashar Assad. Con che risultati? Qual è la reazione di Damasco alla sua telefonata?». Editorialisti e scrittori come Abraham Yehoshua suggeriscono di negoziare subito con i palestinesi, di separare i due conflitti. L’Hezbollah – dicono – è un problema libanese, con i palestinesi, invece, gli israeliani dovranno convivere. «Le due crisi sono divise in ogni caso. Non mi sembra che il presidente Abu Mazen si preoccupi per l’Hezbollah. Il vero problema è che non sono sicuro lui sia pronto per dialogare. Abu Mazen è un gentiluomo, una persona garbata, ma il governo palestinese è controllato da Hamas. E Hamas non è un partner accettabile per i negoziati». Il suo partito ha vinto le elezioni promettendo un nuovo ritiro unilaterale, questa volta dalla Cisgiordania. Il progetto è ancora valido? O è stato vanificato dalla crisi a Gaza, territorio evacuato dagli israeliani un anno fa? «In questo momento devo essere concentrato su questa guerra. Non è il momento per pensare ad altro. Posso dire che una vittoria sarà molto importante per il futuro di Israele». Quali sono gli obiettivi che l’esercito israeliano deve raggiungere perché lei dichiari una vittoria? «Israele non deve più trovarsi a fronteggiare le minacce a cui era sottoposto prima che tutto questo cominciasse. La nuova equazione definirà un equilibrio completamente diverso nell’area: l’Hezbollah ci penserà due, tre, molte volte prima di attaccarci e penso che siamo molto vicini a questo traguardo». Davide Frattini