Michele Farina, Corriere della Sera 3/8/2006, pagina 17, 3 agosto 2006
Il Sudafrica cambia la sua storia: nuovi nomi ai lupghi dell’apartheid. Corriere della Sera, giovedì 3 agosto Quando Fabio Cannavaro sbarcherà in Sudafrica nel 2010 per difendere la Coppa del Mondo, ad accogliere gli Azzurri ci sarà Oliver Tambo
Il Sudafrica cambia la sua storia: nuovi nomi ai lupghi dell’apartheid. Corriere della Sera, giovedì 3 agosto Quando Fabio Cannavaro sbarcherà in Sudafrica nel 2010 per difendere la Coppa del Mondo, ad accogliere gli Azzurri ci sarà Oliver Tambo. Il (notoriamente) informato Del Piero potrebbe spiegare al (sedicente) incolto Materazzi qualcosa su uno dei padri della lotta all’apartheid. Un padre un po’ dimenticato: la sua tomba in pietra nera sta in una brutta periferia fuori Johannesburg. Adesso il governo sudafricano sta per dedicare allo schivo compagno di Mandela l’aeroporto della prima città del Paese. Fino al ’94 si chiamava Jan Smuts, in onore di un generale boero. Alla caduta del regime segregazionista fu ribattezzato transitoriamente International Airport. Ora la decisione sembra definitiva. D’ora in poi si atterrerà al Tambo. L’ha detto ieri il ministro della Cultura, Pallo Jordan. L’annuncio ufficiale a fine agosto. Tra i mugugni dell’opposizione bianca: «Una mossa costosa che divide il Paese e confonderà i turisti». Il ministro ribatte che la pratica di cambiar nomi ai luoghi è «benedetta dall’Onu» e raccomandata in patria dalla Commissione Verità e Riconciliazione, quel «tribunale del perdono» nato per lenire le ferite tra bianchi e neri con la formula «amnistia in cambio di confessioni». Catarsi al posto di purghe. Ma che c’entra la toponomastica? Per il governo guidato dai figliocci di Nelson Mandela, ridefinire la geografia dell’apartheid è una forma di «compensazione simbolica» per riparare all’«ingiusto passato». Oltre che un lavoraccio immane. Sono 57 mila i luoghi che aspettano di essere ribattezzati dal South African Geographical Names Council. Monti, fiumi (l’Olifants è già diventato Lepelle), città. Scelte scontate: via il villaggio di Kafferskop, ( kaffir dispregiativo per nero). Altre più dibattute: un anno fa l’Anc, il partito al potere, voleva cancellare dalle mappe la capitale Pretoria (l’«eroe» bianco Andries Pretorius) e sostituirla con «Tshwane» («Noi siamo uguali»), termine usato da alcune tribù locali per definire l’area. Grande dibattito, bianchi ferocemente contrari. Alla fine la decisione fu presa, ma poi insabbiata. E la capitale continua a chiamarsi Pretoria. Anche perché non c’era accordo sul nuovo appellativo. Tribù divise. Difficile trovare un antenato o un luogo comune a cui appellarsi. Tanto valeva tenersi il nome dato dai bianchi. E magari pensare di più a come abbassare la disoccupazione ferma al 27%, tamponare l’Aids che uccide 900 sudafricani al giorno, aggiungere qualche gabinetto nelle baraccopoli come Foreman Road a Durban che ha quattro bagni per settemila abitanti. «Che ci importa dei nomi?» dice Bobo, il collaboratore del Corriere che ha lasciato il ramo biblioteche pubbliche a Soweto per guadagnare qualche soldo nel settore pompe funebri così ben foraggiato dall’Aids. «Il cambio dei nomi è il prezzo da pagare alla trasformazione» titolava ieri lo Star. «Quale trasformazione?» dice Bobo. La terra, come le azioni della Borsa sudafricana, sono sempre in mano ai bianchi. E la classe media nera è ancora striminzita. I poveri aumentano. Che ci importa dei nomi; un anno dopo il caso Pretoria, il dibattito sull’aeroporto di Johannesburg ha suscitato meno passioni. Ok, la capitale è la capitale. Ma forse c’è dell’altro: dodici anni dopo le prime elezioni libere dell’era Mandela, è azzardato pensare che le ferite dell’apartheid si sentano meno oppure (Bobo dixit) sono le «compensazioni simboliche» che non bastano più? Sorry Bobo, se non escludiamo la prima ipotesi. Ieri Justin Pearce della Bbc ha illustrato la maggioritaria indifferenza degli abitanti di via Hendrik Verwoerd all’idea (appena approvata) di cancellare dai cartelli di questo sobborgo gramo di Johannesburg ogni riferimento all’architetto più implacabile e vergognoso del regime bianco. «Lo so che è stato l’uomo dell’apartheid – sintetizza Efraim Langena che ha un negozio sulla strada ”. Ma adesso c’è il nuovo Sudafrica. Quelli come Verwoerd hanno fatto la loro parte. Nel nuovo Sudafrica possiamo tenerci anche i loro nomi». Non è una cosa da poco, detta da un figlio della discriminazione razziale. la lezione Mandela, che poco dopo la sua elezione a presidente andò a prendere il tè dalla vedova di Verwoerd, l’uomo che l’aveva condannato a marcire in carcere. anche la riconciliazione dei nomi. Giustizia e toponomastica. immaginabile una via Mussolini a Roma? O, tra dieci anni, un largo Saddam a Bagdad? Michele Farina