Anna Zafesova, La Stampa 2/8/2006, 2 agosto 2006
Bancarotta Yukos. La Stampa, mercoledì 2 agosto Solo tre anni fa era l’azienda numero uno della Russia, un impero apparentemente inarrestabile in un’economia basata sul petrolio, guidato da un dream team di giovani, ricchi, intelligenti, in delirio di onnipotenza, che dai loro uffici di top executive nel grattacielo azzurro della via Dubininskaya a Mosca progettavano la conquista del mondo
Bancarotta Yukos. La Stampa, mercoledì 2 agosto Solo tre anni fa era l’azienda numero uno della Russia, un impero apparentemente inarrestabile in un’economia basata sul petrolio, guidato da un dream team di giovani, ricchi, intelligenti, in delirio di onnipotenza, che dai loro uffici di top executive nel grattacielo azzurro della via Dubininskaya a Mosca progettavano la conquista del mondo. Il colosso che doveva servire da pista di decollo per lanciare Mikhail Khodorkovsky verso il Cremlino l’ha catapultato invece in un Gulag ai confini con la Cina. E ora siamo al banchetto finale, dove gli avanzi del grande impero verranno spartiti tra amici e nemici. Ieri il tribunale dell’arbitrato di Mosca ha decretato la bancarotta della Yukos e revocato i poteri dei suoi organi esecutivi, nominando invece un amministratore straordinario. La Moody’s ha revocato il rating del titolo, una volta gioia degli investitori. Nonostante quanto resti del management della compagnia petrolifera abbia già ricorso in appello contro la decisione, nessuno ha dubbi che la giustizia russa sarà implacabile, come lo è sempre stata quando si è trattato dell’impero di Mikhail Khodorkovsky. In altre parole, nel grande romanzo della Yukos è stata scritta la parola fine. La richiesta di bancarotta era stata fatta nei giorni scorsi da un’assemblea di creditori, tra cui il fisco russo, la Rosneft - l’azienda statale che era già salita a status di major internazionale grazie agli attivi sequestrati della Yukos - e un consorzio di 14 banche occidentali capeggiato da Société Générale, che aveva prestato a Khodorkovsky un miliardo di dollari nel settembre 2003, un mese prima dell’arresto dell’oligarca. L’amministratore provvisorio Eduard Rebgun, nominato dal tribunale, ha valutato l’ammontare dei debiti della Yukos a 18,26 miliardi di dollari, a fronte di un valore di mercato di soli 17,72 miliardi di dollari. La cifra era stata contestata dai manager della compagnia, che la valutano in almeno 37,7 miliardi di dollari. I dirigenti della Yukos avevano cercato di fermare l’inevitabile, proponendo un piano di risanamento che però è stato respinto dalle autorità russe come «non conforme alla legislazione nazionale». Il presidente Steven Theede si è dimesso dieci giorni fa e gli ultimi tentativi degli avvocati di fermare o almeno rinviare la sentenza, in attesa di un pronunciamento della Corte di Strasburgo, non sono valsi a nulla. Dunque, la Yukos ufficialmente non esiste più. Ma la defunta, per quanto già in morte clinica da mesi, e rantolante dopo l’espianto forzato del suo cuore - Yuganskneftegaz, la sussidiaria che produceva da sola tanto petrolio quanto la Libia, sequestrata per presunti debiti fiscali e venduta dallo Stato russo a un’asta più che sospetta, a un venditore sconosciuto, per la modica cifra di 9,3 miliardi di dollari - finito in mano alla statale Rosneft, lascia ancora un’eredità cospicua. In primo luogo, ci sono le sussidiarie Tomskneft e Samaraneftegaz. Poi rimangono senza padrone cinque raffinerie, tra cui Angarsk, un mega «kombinat» vicino al lago Baikal, con un potenziale di 348 mila barili al giorno e la posizione geografica strategica che lo rende fondamentale in una prospettiva di oleodotti verso la Cina. E, infine, ci sono una serie di gemme della corona sparse in giro per il mondo, in attesa dell’udienza del 17 agosto prossimo presso il tribunale di Amsterdam, che dovrà decidere la distribuzione degli asset non russi della Yukos. C’è la Mazeikiu Nafta, società lituana le cui partecipazioni del 53,7% sono già state vendute, ma ci sono ancora da dividere tra i creditori di Yukos i ricavi dalla cessione per 1,492 miliardi di dollari a PKN Orlen. Il player polacco sta fra l’altro comprando il 30,66% di Mazeikiu Nafta dal governo lituano per 851,8 milioni. Resta orfano il 49% della Transpetrol slovacca, e i pretendenti si moltiplicano: alla Gazprom e alla polacca Pern si aggiunge la ceca Cepro e un investitore americano. Bocconi gustosi, ma mai quanto gli asset russi, che oltre a portare profitti possono rivelarsi fondamentali nelle future partite di potere. Nonostante viva da tre anni in un permanente terremoto, la Yukos continua a possedere ancora il 100% della Artikgaz, società con licenze sui giacimenti del Nord che fa gola alla Tnk-BP, e 20% della Gazpromneft, la ex Sibneft di Roman Abramovic, che il padrone del Chelsea più astuto di Khodorkovsky ha accettato di rinazionalizzare con le buone. Il pacchetto è stimato in oltre 4 miliardi di dollari, e interessa la Gazprom, che vuole il controllo totale sulla compagnia petrolifera acquistata l’anno scorso. L’offerta è già stata presentata: meno di 2 miliardi di dollari. E’ proprio questo che temono e denunciano gli ormai ex amministratori della Yukos: l’avvocato della società Drew Holiner ha dichiarato ieri che il verdetto di bancarotta ha aperto la strada alla svendita degli attivi a prezzi stracciati. «Un amministratore straordinario deve vendere al più presto per coprire i debiti, non può aspettare», ha detto Holiner. Ma l’obiettivo pare proprio quello di approfittare della circostanza, come del resto è già successo nella saga della Yukos. Il finanziere George Soros qualche giorno fa ha riassunto il pensiero di molti scrivendo sul Financial Times che il Cremlino ha «usato il potere dello Stato per riguadagnare il controllo sull’industria energetica». Il verdetto del tribunale di ieri è un certificato di morte di un paziente che non respirava più: la Yukos non produceva quasi più petrolio, era stata spogliata dei suoi asset maggiori, Khodorkovsky resterà in prigione ancora per almeno sei anni. Ma il 1 agosto 2006 sarà comunque la data ufficiale della fine del sogno degli oligarchi cresciuti da Boris Eltsin, e del coronamento del progetto di «superpotenza energetica» di Vladimir Putin. Anna Zafesova