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 2006  luglio 28 Venerdì calendario

La guerriglia di Padova (anche in nome della fede). Corriere della Sera 28 luglio 2006. Padova. Tenute in ostaggio dalla povertà, che impedisce loro di trovare un’altra casa, la Livia e la Giovanna non sapevano che cosa fare, l’altra sera, allo scoppio della battaglia tra i neri e gli arabi

La guerriglia di Padova (anche in nome della fede). Corriere della Sera 28 luglio 2006. Padova. Tenute in ostaggio dalla povertà, che impedisce loro di trovare un’altra casa, la Livia e la Giovanna non sapevano che cosa fare, l’altra sera, allo scoppio della battaglia tra i neri e gli arabi. Così, serrati i catenacci, hanno detto un pateravegloria e aspettato che gli scontri, giù per i pianerottoli, i cortili e le strade adiacenti, si sedassero. Cinque ore di guerriglia. Con i due «eserciti» armati di bastoni, machete, coltelli, spranghe... Di qua i nigeriani decisi a devastare anche il sottoscala eletto dai musulmani a moschea, di là i maghrebini decisi a vendicare l’offesa verniciata di motivi più o meno religiosi. E decine di poliziotti che tentavano di sedare la gigantesca rissa (21 arresti e 50 espulsioni) sparando in aria, lanciando candelotti lacrimogeni, circondando l’area fra latrati di sirene. Vita durissima per le ultime italiane sopravvissute negli anni all’invasione di via Anelli, il block padovano diventato sinistramente famoso in tutta Italia come l’esempio massimo della cattiva integrazione. Il caso esemplare cavalcato dai razzisti come la prova che «i negri e i marocchini fanno i padroni a casa nostra» e paventato dagli anti-razzisti come la prova di quanto possa essere disastroso consentire la nascita dei ghetti. Durissima la vita loro e durissima quella delle decine di famiglie degli immigrati regolari e perbene che tirano su i figli in una situazione di degrado, violenza, pericolo. E chiedono aiuto ai carabinieri e non vedono l’ora di andarsene, esattamente come la Livia e la Giovanna. Era un quartierino a modo, una volta, quello di via Anelli, prima cinta della periferia, dietro il centro commerciale «Giotto». I 273 appartamentini di pochi metri quadrati delle sei palazzine erano abitati da avvocati, giornalisti, architetti, medici... E studenti, soprattutto studenti. Una bella atmosfera, ricordava la signora Rita, dopo anni di prigionia «liberata» dal Comune che le ha trovato un’altra casa: «Quando qualche ragazzo si laureava tutta la scala si dava da fare: e chi portava la pasta e chi il secondo e chi il contorno e tutti insieme si faceva una gran festa in cortile». Quando cominciò il degrado è difficile da ricostruire. Certo è che via via che i muri si scrostavano e gli ascensori si fermavano per sempre e i campanelli venivano sventrati, gli avvocati, i giornalisti, gli architetti, i medici e gli studenti italiani se ne sono andati e al posto loro si sono ammucchiati immigrati in larghissima parte africani. Disposti, per sopravvivere, a fare i lavori più duri, discutibili e spesso illegali. Ma soprattutto disposti a pagare, per 28 metri quadrati, denuncia il sindaco Flavio Zanonato, «anche mille euro al mese». Spartiti a volte tra sette o addirittura nove o più persone, costrette a scambiarsi lo stesso letto a turno per dividere la spesa. Una storia che noi italiani dovremmo conoscere. Esattamente uguale a quella, per esempio, fotografata un secolo fa dal grande Jacob Riis a Bayard Street, nella Little Italy di New York, dove in un block di 132 stanze vivevano 1.324 napoletani e veneti, romagnoli e siciliani. E che faceva scrivere al nostro Adolfo Rossi, inorridito: «A New York c’è quasi da vergognarsi di essere italiani». Se avessimo studiato un po’ la nostra emigrazione avremmo evitato l’errore: ogni ghetto generava una crescente ostilità degli abitanti locali. E l’ostilità generava l’isolamento, il rancore, l’odio, la violenza. E ogni ghetto finiva per diventare un fortino della criminalità. Così è andata, in via Anelli. Giorno dopo giorno, il travaso di diffidenza, insofferenza, ostilità fra chi stava «dentro» e chi si sentiva via via «invaso» ha creato una tensione insostenibile. E il quartierino, man mano che gli italiani svendevano a prezzi stracciati, è diventato un mondo inospitale: corridoi anneriti dalle carbonelle, porte scardinate, water divelti, ascensori murati con cemento e mattoni, muri interni pericolosamente abbattuti senza manco una putrella, sacchi di pattume sui pianerottoli... E dentro, un’umanità disperata, indifferente all’igiene, violenta. Via via ostaggio della prostituzione, della piccola criminalità, dello spaccio. «Sistemeremo noi le cose», promise Giustina Destro quando fu eletta sindaco alla guida di una giunta di destra: «Useremo anche i cani, lo sapete che i musulmani hanno paura dei cani?». Macché: zero, accusa Paolo Manfrin, alla testa di un comitato di cittadini stremati. Spiega che sì, certo, lo sanno anche loro, i padovani, che «il problema di via Anelli non è chi ci abita, perché in buona parte sono brava gente ostaggio di pochi violenti. Certo è che noi non viviamo più». Don Pietro Rota, il parroco di San Pio X, conferma: «I cristiani, soprattutto nigeriani della tribù Ibu, affollano la domenica la messa in inglese. E mostrano una religiosità straordinaria. Alla scuola materna abbiamo 75 bambini di 13 nazionalità. E i parrocchiani sanno benissimo che anche loro, quelli che vivono in via Anelli, sono prigionieri. Ma quella casbah è diventata purtroppo la sentina di troppi spacciatori». Nigeriani e maghrebini. «Vengono da fuori, spacciano 24 ore su 24 e usano il caos di via Anelli come rifugio in caso di bisogno», spiega Zanonato. Ogni tanto la polizia e la nettezza urbana danno una ripulita. E portano via pusher, lavatrici rotte, montagne di pattume, prostitute, droga, teste di capra mozzate... Poi tutto torna come prima. «Alla luce del sole», ride amaro Manfrin, «Torni a casa col finestrino aperto e ti infilano la mano: "Capo, roba buona buono prezzo capo!". Il più sfrontato di tutti, tempo fa, arrivò a mettere un banchetto con le bustine allineate, il bilancino...». «Fuori tutti!», strilla qualcuno. Facile... «Contro gli sgomberi si sono sempre ribellati per primi, scatenando ricorsi al Tar, i proprietari degli alloggi che non vogliono perdere le galline dalle uova d’oro», dice Daniela Ruffini, assessore alla Casa e all’immigrazione. E dove li trovano, certi investitori padroni di decine di monolocali, inquilini da mille euro al mese per 28 metri quadrati? Per uscirne il Comune è diventato proprietario di un centinaio di appartamentini, presi a 27 o 30 mila euro l’uno. Ha «liberato» tre palazzine, trovato un’altra casa a ogni famiglia sloggiata, sparpagliato gli immigrati un po’ qua e un po’ là («Vincendo le diffidenze nonostante i volantini della destra: mai più avuto problemi con le famiglie reinserite», rivendica il sindaco) e sigillato con le inferriate i tre stabili evacuati perché non fossero di nuovo occupati. Prossima evacuazione prevista: a ottobre, quando anche la Lidia e la Giovanna e un’altra trentina di famiglie dovrebbero essere «liberate». Chiusura del «caso via Anelli» con lo sgombero delle ultime due palazzine: prima della prossima estate. Auguri. Sperando che questa passi in fretta. Il caldo, nell’inferno di quelle palazzine, tira fuori il peggio del peggio. Se poi la devastazione della moschea fosse usata per scatenare anche una guerra religiosa... Gian Antonio Stella