La Repubblica 22/07/2006, pag.49 Guido Crainz, 22 luglio 2006
Il nuovo del 1956. La Repubblica 22 luglio 2006. Fu lungo e rigido l´inverno del 1956 in Italia: l´inverno di un paese che vedeva il sotterraneo delinearsi di processi nuovi ma al tempo stesso il permanere di antichissime povertà
Il nuovo del 1956. La Repubblica 22 luglio 2006. Fu lungo e rigido l´inverno del 1956 in Italia: l´inverno di un paese che vedeva il sotterraneo delinearsi di processi nuovi ma al tempo stesso il permanere di antichissime povertà. La polizia spara ancora contro braccianti che chiedono lavoro: a gennaio a Venosa, in Lucania, uccidendo un giovane, e il mese dopo a Comiso, in Sicilia, ove muore un altro lavoratore; poi a Barletta, a marzo, ove le vittime sono due. Manifestavano, riferisce il prefetto, assieme a «tremila dimostranti disoccupati preceduti da donne e bambini»: chiedevano una più equa distribuzione dei pacchi-viveri della Pontificia Opera di Assistenza e del Soccorso Invernale. Non era solo l´ondata di gelo a gettare «un fascio di luce cruda» su quell´Italia, come scriveva Mario Alicata su Rinascita. A febbraio a Partinico era stato arrestato assieme ad altri Danilo Dolci, che guidava uno «sciopero alla rovescia» di disoccupati: volevano rendere agibile una strada di campagna dissestata. Il processo si svolse poco dopo a Palermo, intervennero a favore degli imputati Piero Calamandrei e Norberto Bobbio, Elio Vittorini e Carlo Levi, Vittorio Gorresio e altri ancora. Era un´Italia dai molti e contraddittori volti quella che si affacciava all´"indimenticabile 1956", segnato sul piano internazionale dal XXº congresso del Pcus e dall´invasione sovietica dell´Ungheria, oltre che dalla crisi di Suez (seguita alla nazionalizzazione del canale). Proprio in quell´anno veniva approvata la legge che ammetteva le donne come giudici popolari nelle Corti d´assise (continuavano invece a rimanere escluse dalla magistratura). Era stata presentata l´anno prima dal guardasigilli, Aldo Moro, e la sua approvazione in consiglio dei ministri non era stata per nulla pacifica: si era opposto il liberale De Caro, avevano espresso perplessità Saragat, Andreotti e altri. Opposizioni non irrilevanti, tanto che la decisione fu rinviata al giorno dopo e la proposta di legge modificata: le donne potevano partecipare alle giurie popolari ma non essere in maggioranza al loro interno (non potevano essere, cioè, più di tre su sei). Per l´accesso alla magistratura e alle altre professioni e impieghi pubblici da cui restavano escluse dovranno attendere il 1963. In quello stesso 1956 invece, superati mille intralci e freni, entra in funzione la Corte Costituzionale. Nella prima seduta deve respingere un ricorso dell´Avvocatura di stato promosso dalla Presidenza del consiglio: sostiene che la Corte non può pronunciarsi sulle leggi in vigore prima della Costituzione, cioè sulla legislazione fascista. Dopo aver negato validità a questo assunto, che illumina bene un contesto, la Corte inizia a rivedere cautamente norme e codici. Si usciva dunque a fatica dalla «democrazia congelata» degli anni della guerra fredda, mentre - su tutt´altro terreno - l´istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali riproponeva più che risolvere alcuni nodi di fondo dell´intervento pubblico. A portare robuste ventate innovative contribuivano intanto un settimanale e un quotidiano. L´Espresso, nato l´anno prima, aveva rotto subito consuetudini e silenzi con la sua campagna contro la speculazione edilizia a Roma (Capitale corrotta = nazione infetta), e veniva per questo denunciato e processato. Il Giorno, invece, usciva in edicola il 21 aprile del 1956, in stretta connessione con le strategie dell´Eni di Enrico Mattei: sganciamento dal «centrismo» in politica interna e dalla sudditanza nei confronti degli Stati Uniti in politica estera. Il piglio è corsaro, anche perché l´appartenenza del giornale all´Eni non è ancora pubblica. Quando lo sarà, ne farà le spese il primo direttore, Gaetano Baldacci: il suo licenziamento sarà deciso nel 1959 da una riunione del Consiglio dei ministri. A dirla in breve, l´innovazione più profonda del Giorno (mantenuta e ampliata poi dal nuovo direttore, Italo Pietra) stava nella sua straordinaria capacità di guardare alla società italiana e al mondo, nella rottura degli schemi della guerra fredda e in un´impronta francamente progressista, priva di remore, che si annuncia sin dall´inizio. Uno dei primi editoriali annota: «Abbiamo sul tavolo migliaia di lettere che dicono press´a poco così: aiutateci ad uscire dalla situazione presente, che è di paura e di mezze verità». Poco dopo, commentando le reazioni a un´inchiesta sulle sofisticazioni alimentari, un altro editoriale osserva: «Che cosa dice il pubblico? Plaude, si meraviglia del nostro "coraggio". L´accenno al nostro coraggio è quello che più ci preoccupa. Ma quale coraggio? E´ talmente disabituato, il lettore italiano, a un minimo di verità?». Anche il formato del nuovo giornale annuncia il cambiamento: prima pagina "a vetrina" con le principali notizie, editoriali brevi e forti novità anche nella titolazione, un inserto a rotocalco, ampio spazio a fumetti e giochi, grande attenzione alla televisione, agli spettacoli, al costume (in quell´anno segue il primo diffondersi anche da noi del rock´n´roll). E soprattutto inchieste, grandi inchieste che ci introducono nella «grande trasformazione» in incubazione: senza Il Giorno la conosceremmo molto meno, nei suoi slanci e nelle sue contraddizioni. Sino al malinconico declinare del giornale dopo la sostituzione di Italo Pietra, nel 1972. La modernità, in quel 1956, inizia ad aprirsi varchi anche in altre aree culturali. In un mondo comunista scosso già a febbraio dal XXº congresso iniziano ad esser messe in discussione antiche certezze e chiusure, ed è interessante il dibattito che si svolge nei primi mesi dell´anno sulle pagine de Il contemporaneo. I dubbi sul «socialismo reale» verranno realmente alla luce solo dopo l´ottobre ungherese, e sarà l´inizio di una diaspora intellettuale significativa. Per ora è sotto accusa soprattutto l´arretratezza culturale del partito italiano: il perdurante ostracismo nei confronti di «nuove tecniche economiche, nuove sociologie, nuove filosofie» (a scriverlo è Luciano Barca, e analoghi accenti vengono da Mario Spinella e da altri), o l´incapacità di cogliere le tendenze di fondo di un capitalismo non più segnato solo dall´arretratezza (osservazioni pungenti vengono da Alessandro Pizzorno). Sull´incapacità di capire il mondo moderno insiste anche Italo Calvino, che nello stesso anno annota: «Tutto è in discussione, tutto si presenta come problema (...), non sono possibili rifiuti a questo fervore intellettuale, pena il non capir più nulla, il restare senza parola». L´Italia del 1956 non è solo il paese in cui basta un lungo inverno per far esplodere miserie e disperazioni. E´ già, dall´anno precedente, il paese di "Lascia o raddoppia?" e delle Seicento: nel 1951 le automobili erano meno di mezzo milione, nel 1956 superano il milione, cinque anni dopo sfiorano i due milioni e mezzo. Le novità iniziano a irrompere sui terreni più differenti. All´interno della Fiera di Milano, ad esempio, si inaugura la Mostra internazionale dell´estetica e delle materie plastiche, mentre l´affermazione del design è già una realtà. In quell´estate Gian Carlo Fusco segnala su Il Giorno il primo fugace comparire sulle nostre spiagge - a iniziale turbamento di scenari tradizionali - di «campeggiatori e di autostoppisti, di motociclisti e automobilisti olandesi, tedeschi, svedesi, che con poche migliaia di lire vogliono vedere tutto, fare il bagno dappertutto, asciugarsi su tutte le sabbie». Non si poteva coglier meglio l´iniziale mutare di un clima. Il piccolo schermo, poi, non è segnato solo dal trionfo di "Lascia o raddoppia?". In quell´anno gli italiani vedono direttamente, nelle loro case o in bar affollati, la tragedia della miniera belga di Marcinelle e il disastro dell´Andrea Doria (55 vittime nelle acque dell´Atlantico), la favola bella del matrimonio di Grace Kelly con il principe Ranieri di Monaco e il dramma di Budapest. Immagini difficili da dimenticare. Con l´Andrea Doria, speronata nella nebbia dalla nave svedese Stockholm, si avviava al tramonto la stagione dei grandi transatlantici di lusso, mentre era alle porte il boom del traffico aereo (dai nostri aeroporti partivano nel 1956 poco più di seicentomila persone, saranno oltre il triplo cinque anni dopo). Marcinelle, infine, costringeva a ricordare i tratti della nostra emigrazione più indifesa: fra le 237 vittime gli italiani sono 139, molti provengono da piccoli comuni abruzzesi. «Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani - scriveva Il Giorno - perché l´Italia si chieda dove sia Manoppello, e perché la gente di questo paese è così povera, e cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio». Sono già avviati in realtà i grandi flussi interni che porteranno centinaia di migliaia di italiani dalle campagne più povere verso i luoghi centrali della «grande trasformazione». Li portano anche nelle disgraziate «Coree» milanesi, o a stipare camerate e soffitte, ad ammassarsi in case disagevoli o cascine di periferia, sfidando diffidenze e chiusure, a Torino e altrove. Guido Crainz