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 2006  luglio 24 Lunedì calendario

Altro che musicista buffo Un genio come Beethoven. Corriere della Sera 24 luglio 2006. Nel mio mestiere faccio da decenni una vita da zingaro, le cronache dedicate ai temi più interessanti vengon sempre redatte in luoghi lontani dalla mia rete di sicurezza, cioè la biblioteca domestica

Altro che musicista buffo Un genio come Beethoven. Corriere della Sera 24 luglio 2006. Nel mio mestiere faccio da decenni una vita da zingaro, le cronache dedicate ai temi più interessanti vengon sempre redatte in luoghi lontani dalla mia rete di sicurezza, cioè la biblioteca domestica. E mi sembra poco sportivo portarmene dietro la porzione necessaria. Così l’episodio che sto per raccontare è riferito a memoria e il lettore offrirà venia per eventuali inesattezze. Ma prima ripeterò una considerazione fondamentale: i compositori della Scuola Napoletana sono spesso citati in false endiadi, false pel differentissimo peso specifico dei membri. In fatto, grandissimi sono i Pugliesi, inferiori i pochi Napoletani, recte Campani. Paisiello è un genio, Cimarosa, aversano, un grande compositore; Leo, brindisino, un genio, uno dei genî della prima metà del Settecento, il suo acerrimo nemico Durante, frattese, un mediocre; Jommelli, aversano, un mediocre, Traetta, bitontino, un genio. Paisiello (1740 - 1816), detto « ’o Tarentino», differisce da costoro anche per un fatto essenziale ma legato alle imponderabili leggi del Tempo: nel senso di Cronos, voglio dire: che può a pieno titolo egli considerarsi non un geniale precursore dello Stile Classico- Romantico, ma uno dei protagonisti. Ciò sarà tra gli oggetti del presente articolo. Compositore d’autorità e di successi quasi senza rivali, autorità e successi estesi da Parigi a Pietroburgo, era negl’ultimi anni ridottosi in miseria e la Moda, sorella della Morte, già l’aveva dimenticato. Or Ferdinando IV, degl’innumeri figli avuti dalla strega austriaca, prediligeva Leopoldo principe di Salerno, detto Popò. Era questi un Principe intelligentissimo, colto, spiritoso: fosse toccato a lui il trono in luogo che all’ameba Francesco I, padre a sua volta di un grande Re, Ferdinando II ! Paisiello, a Restaurazione avvenuta, ottenne un’ udienza da Leopoldo. Il Principe l’accoglie familiarmente e la conversazione si sviluppa con garbo e spirito. Alla fine dell’udienza, Popò: «Neh, Tarenti’, diciteme ’na cosa, quale d’ ê spartiti d’ ê vuoste mettit’ ’a copp’ a tutt’ l’ aut’?" («Neh, Paisiello, ditemi quale delle Vostre Opere considerate l’eccelsa»). «Altezza Reale, ’a Fedra! ». «Nun’ è ’o vero, Paisié, ’o capolavoro vuost’ è ’a Nina! ». Il Maestro, di fronte a così autorevole parere, dovette chinare il capo: il Principe allora gli strinse ambo le mani e Paisiello si commosse, o a commuoversi fu costretto; l’Altezza lo accompagnò. Chiusasi la porta dietro le sue spalle, ’o Tarentino dismise comunque quella commozione. «Mannaggia ’a ciorta mia, un’ ’nn’ aggi’ truvat’, un’, e ’nnun tene manc’ ’ll’ uocchie pè cchiagne!». («Maledetto il mio destino, uno solo ne ho trovato, e non possiede neanche gli occhi per piangere! Ossia: non ha un franco da assegnarmi»). Il dialogo qui riportato è il sismografo più esatto d’un caso terribile, allora annunciantesi, divenuto poi sentenza storicamente passata in giudicato. Il principe di Salerno non aveva detto una cretinaggine, s’era anzi espresso con finezza e sicurezza assolute. Solo, aveva rappresentato una precisa posizione del gusto. La Nina pazza per amore, erede d’un «genere» nato quasi trent’anni prima con La Cecchina del barese Nicola Piccinni, tratta nientemeno che dalla Pamela del Richardson, è fuor di dubbio capolavoro assoluto, e intrinsecamente e storicamente: giacché fissa in modo restato insuperabile il «genere» della «Comédie larmoyante», definito poi «mezzo carattere». Senza la Nina, vertici come La sonnambula, L’elisir d’amore, La fille du Régiment, il Don Pasquale, non sarebbero. Ma l’apoteosi della Nina ottiene e, come si vede, già otteneva, il perverso effetto di mettere in ombra il Paisiello compositore di Teatro Musicale tragico. «’A Fedra, Altezza Reale!». Gli Autori difficilmente sbagliano su se stessi. La Fedra è del 1788; altri e fondamentali titoli precedenti non verranno qui ricordati; della fine del 1792, dunque morto appena Mozart, è l’Elfrida, su testo del maggior poeta drammatico settecentesco dopo Metastasio, Ranieri Calzabigi; e del regno murattiano l’alta ascesi de I Pittagorici. Ci occupiamo qui del «dramma» immediatamente precedente l’Elfrida, sul testo, invero antiquato e velleitario, di un veneziano Pepoli, I giuochi d’Agrigento: questo, e non altri, venne scelto per la – prima – inaugurazione della veneziana «Fenice»: e basterebbe a illuminare di qual prestigio godesse ancora il Paisiello autore tragico. La prima esecuzione moderna si ascolta in questi giorni al Festival della Valle d’Itria a Martina Franca: sotto la guida attenta ed elegante, e a mio avviso la sola oggi stilisticamente accettabile, del maestro Giovambattista Rigon, interpreti principali il soprano Maria Laura Martorana, che sarà una rivelazione dei prossimi anni quale soprano di coloratura a condizione che studii ancora a rafforzare le note attorno al Do centrale, e il soprano Mara Lanfranchi. L’allestimento non potrebb’essere più neoclassico, perché la musica stessa parla tale lingua: e infatti a ciò tendono i bellissimi bozzetti di Italo Grassi, gli atleti, ovviamente, nudi. Motivi di opportunità, debbo credere, hanno suggerito di celare quanto (forse) di meglio avessero da ostendere; sicché, per evitare l’anacronismo di sportivi del V sec. coperti, il regista Marco Gandini ha avuto l’idea, fra tutti gli escamotages il meno infelice, di spostare la vicenda all’epoca fascista, che appunto estese lo sport a tutte le classi sociali. Non possiamo che ringraziarlo. Il testo letterario complica attraverso equivoci e false agnizioni una vicenda che la musica vorrebbe di sintesi. Ma da questa complicazione nasce in Paisiello una straordinaria varietà di analisi psicologiche le quali, giusta la non meno straordinaria qualità della partitura, son concepite in evoluzione e non siccome galleria di «affetti» (aristotelicamente: sentimenti), espressi allo stato solo ideale e generalissimo. Per immaginare che cosa sia quest’Opera, si può partire dalla Clemenza di Tito di Mozart: se vi omettiamo il Finale I, forse la cosa più alta scritta da Wolfgang, abbiamo un Dramma simile ma ben superiormente rifinito. A questo punto ci accorgiamo che siamo più vicini al giovane Beethoven che allo stesso Mozart; la più matura riflessione c’insegna che Haydn è a questo Paisiello parente più stretto degli altri due, e proprio per ciò si giustifica una scrittura orchestrale d’una fantasia e d’una novità che da un lato giungono ad anticipare il Sogno d’una notte di mezz’estate di Mendelssohn, dall’altro circonfondono la vicenda d’un’aura elisia fatta di combinazioni di clarinetti, oboi, fagotti, che son solo di Paisiello. Resta da dire che non meno elisio è il genio melodico che, unitosi a studiatissima asimmetria armonica, fa procedere la musica di sorprese in sorprese. Ma ancor più rilevante è la concezione formale: il peso attribuito al coro, anche secondo un’imitazione moderna della forma degli Stasimi della Tragedia classica, il fatto che i pezzi d’insieme prevalgano sulle Arie solistiche, e quel finale che, nel suo protrarsi di lente strofe, possiede qual solo analogo la Cantata di Beethoven, sui versi di Goethe, Calma di mare e viaggio felice... Paolo Isotta