Corriere della Sera 19/07/2006, pag.35 Sergio Romano, 19 luglio 2006
Lingua franca, sabir, pidgin: le lingue «bastarde». Corriere della Sera 19 luglio 2006. Durante il Medioevo e fino al XIX secolo c’era una lingua franca chiamata «sabir»
Lingua franca, sabir, pidgin: le lingue «bastarde». Corriere della Sera 19 luglio 2006. Durante il Medioevo e fino al XIX secolo c’era una lingua franca chiamata «sabir». Veniva parlata nel Mediterraneo da europei, arabi e turchi con parole prese prevalentemente dallo spagnolo e dall’italiano ma anche con parole turche, arabe e greche. Mi piacerebbe saperne di più (per esempio quanti erano i vocaboli e come era strutturata grammaticalmente). Si potrebbe oggi ipotizzare la nascita di una lingua simile composta da un lessico inglese, cinese e indiano (con l’aggiunta di parole internazionali)? Questo per favorire le potenze emergenti Cina e India che altrimenti devono subire una lingua straniera. Ci sarebbe il problema dell’alfabeto, ma penso che con Internet l’alfabeto latino abbia un vantaggio incolmabile e sia quello più pratico. Piero Widenfels Caro Widenfels, sabir (dallo spagnolo saber, sapere) fu effettivamente per molti secoli la lingua franca del Mediterraneo e veniva parlata soprattutto a bordo delle navi, nei porti, nei mercati, là dove persone di diversa origine nazionale avevano bisogno di comprare, vendere, cambiare denaro, chiedere e dare informazioni elementari. I suoi vocaboli sono prevalentemente italiani, con un importante contributo spagnolo e un numero minore di parole arabe, turche e greche. La sua composizione è simile per molti aspetti a quella di altre lingue franche, nate in Asia e nelle Americhe dai contatti fra i colonizzatori europei e le popolazioni locali. Si chiamano «pidgin» (dalla deformazione cinese della parola business), si scrivono (quando si scrivono) con le lettere dell’alfabeto latino e si servono delle cinque vocali pronunciate all’italiana. Dalla voce «pidgin» della Enciclopedia Britannica apprendo che le lingue europee maggiormente utilizzate per la formazione dei diversi pidgin sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese, e che le zone dove nacquero sono le terre abitate da tribù indiane nell’America del Nord, i Caraibi, le Antille, l’Asia sud orientale, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Africa. Ma esistono anche pidgin europei, come il russonorsk, parlato da russi e norvegesi nelle regioni artiche agli inizi del Novecento. Molti di questi linguaggi ebbero vita relativamente breve e scomparvero quando il Paese conquistato imparò la lingua dei colonizzatori. Resistono più a lungo, invece, là dove i colonizzatori vogliono sottolineare in tal modo la natura semplice e primitiva dei colonizzati. Quando una intera comunità abbandona la propria lingua per adottare il pidgin, il nome abitualmente usato per definire la lingua acquisita è «creolo». Secondo l’autore della voce pubblicata dalla Britannica queste parlate ignorano i casi, le declinazioni, il singolare e il plurale, il maschile e il femminile, e usano i verbi all’infinito. Il vocabolario è abbastanza limitato: 700 parole per il pidgin cinese, ma 1500 per il pidgin melanesiano. Il mio primo incontro con il «pidigin» avvenne a Palazzo Chigi nel 1954. Ero appena entrato nel ministero degli Esteri e lavoravo con un anziano funzionario molto simpatico, Adolfo Crescini, che era stato a lungo in Asia e in America Latina. Crescini cercò di spiegarmi che dovevo imparare a «prendere le cose con calma», ma io, apparentemente, non gli davo retta. Allora un giorno mi regalò una targhetta d’argento su cui aveva fatto incidere «sloly sloly catci manky», versione pidgin di «slowly slowly you catch the monkey», per afferrare la scimmia sii lento e prudente. In modo più elegante Talleyrand diceva ai giovani diplomatici: et surtout pas trop de zèle, e soprattutto mai troppo zelo. Sergio Romano