Varie, 24 luglio 2006
Tags : Enrico Job
Biografia di Enrico Job
• Napoli 31 gennaio 1934, Roma 5 marzo 2008. Scenografo. Costumista. Studi a Brera, debuttò come costumista alla Scala con Semiramide di Rossini (1962, regia di Wallmann) e come scenografo-costumista con Le notti dell’ira di Salacrou (Piccolo Teatro 64, regia di Giorgio Strehler). Ha lavorato in teatro con Ronconi, all’opera con Roberto De Simone, nel cinema con la moglie Lina Wertmüller ecc. • «[...] è stato uno dei più grandi scenografi e costumisti italiani in un periodo, dagli anni Sessanta alla fine del Novecento, in cui la scena italiana ha conosciuto una stagione scenografica particolarmente ricca e variegata, con la presenza di artisti come Luciano Damiani, Lele Luzzati, Ezio Frigerio, Giò Pomodoro. “Un uomo luminoso, un grande artista, un fine intellettuale, un pezzo raro”, lo ha ricordato ieri commossa la moglie, la regista Lina Wertmüller. “Sì. ho avuto il dono di stare con lui 44 anni, siamo stati due compagni di gioco”. Nato a Napoli da genitori veneti, trasferito con la famiglia durante la guerra in Franciacorta, nella campagna bresciana, Job arriva a Milano nel 1946 e qui si forma come pittore, attività che con fasi alterne continuerà a svolgere sempre. Ma il lavoro con cui conquista il maggiore successo è la scenografia teatrale e cinematografica. Dal debutto nel ’62 con i costumi di una Semiramide di Rossini alla Scala di Milano con regia di Margherita Wallman e scene di Benois, fino a [...] la proficua collaborazione con Francesco Rosi e Luca De Filippo e prima ancora con Mario Missiroli per cui aveva realizzato scene e costumi per Verso Damasco del ’78, I giganti della montagna dell’82, La villeggiatura dell’81, la Medea del ’96. I suoi lavori teatrali sono considerati un punto significativo nella storia del teatro italiano contemporaneo, frutto di incontri con i maggiori registi teatrali di questi decenni. Si può partire da Le notti dell’ira con la regia di Strehler nel 1963, passando per il Riccardo III diretto da Luca Ronconi con Vittorio Gassman, o le scene per le tante regie di Mina Mezzadri fra il ’78 e l’80. L’esperienza scenografica nella lirica si allarga per lui anche alla regia in due allestimenti Il trovatore del ’90 a Macerata e Elisabetta di Rossini al S. Carlo di Napoli nel ’91, l’anno in cui divenne padre di una bimba, Maria Zulima che pure divenne un caso. La paternità fu contestata dall’associazione delle famiglie adottive che presentarono un esposto, poi accantonato, accusando Job e Lina Wertmüller di aver in realtà adottato la bimba senza rispettare le procedure previste. Notevole anche il lavoro nel cinema di Job con una ventina di film, soprattutto in collaborazione con Lina Wertmüller e Francesco Rosi, imponendo anche per la pellicola il suo segno da vero architetto della scena, costruttore di simboli e sogni» (Ugo Volli, “la Repubblica” 6/3/2008) • «[...] rinunciò a essere pittore, un grande artista del nostro tempo per la sua attività di costumista e scenografo teatrale e cinematografico, anche se egli stesso raccontava di averla intrapresa per ripiego. Job era nato nel 1934 a Napoli, dove il padre, veneto e importatore di frutta nella Germania di Hitler, si era trasferito in fretta a causa del cognome di apparente origine ebraica; aveva trascorso l’infanzia a Napoli, e poi l’adolescenza a Milano. Precocemente divorato da una passione per il disegno, si era educato da sé copiando i maestri antichi dalle cartoline, fino a quando il padre rinunciò a fare di lui un geometra e lo iscrisse a Brera. Voleva fare il pittore, ma entrò in una crisi profonda quando, ormai ventisettenne, si rese conto che il mercato non aveva molto da offrire a un anomalo come lui, appassionato di Beccafumi, del Parmigianino, e insomma della fredda sensualità dei Manieristi. Così con una decisione caratteristica della sua incapacità di compromesso, nel ’61 disse addio per sempre ai pennelli (in seguito avrebbe commentato a suo modo la moderna contestazione dell’arte tradizionale, con esposizioni di un elegantissimo neonichilismo inquietante e beffardo). Sul momento la rinuncia non fu liberatoria, anzi, ne seguirono anni di profonda infelicità se non addirittura di depressione. Non sapendo fare altro che disegnare, comunque, Job pensò al teatro, e cominciò a mostrare in giro bozzetti per costumi di spettacolo, così personali da risultare invendibili, almeno fino a quando non capitarono in mano allo scenografo e costumista Luciano Damiani. Riconoscendo un talento, questi invitò il giovane a lavorare con lui, e in seguito lo sfruttò, sia pure in un simpatico clima di bottega, per diversi anni. Come costumista in proprio Job debuttò alla Scala con una Semiramide di Rossini (1962), regista Margherita Wallmann, e continuò lavorando prevalentemente per il Piccolo di Milano, dove collaborò anche a celeberrimi spettacoli di Strehler come Galileo e Il gioco dei potenti nonché, in seguito, I giganti della montagna. Due incontri successivi segnarono il decollo della sua personalità nel mestiere che ormai si era scelto. Il primo fu col coetaneo Luca Ronconi - vedi i costumi del 1968 per Riccardo III con Gassman e per Il candelaio, e quelli (con l’impianto scenografico) per Orestea di Eschilo (1972). Il secondo fu con la regista Lina Wertmüller, da subito sua compagna per tutta la vita. Il sodalizio con quest’ultima produsse scenografie per la prosa, per la lirica, e soprattutto per il cinema, dove Job aveva debuttato in punta di piedi (Spara forte... più forte... non capisco di Eduardo De Filippo, 1974) ma dove poi avrebbe dato corpo ad alcune delle immagini più indimenticabili dello schermo italiano di ogni tempo (alla rinfusa: il bordello di Storia d’amore e d’anarchia, 1973; il lager di Pasqualino Settebellezze, 1975; la cucina napoletana maiolicata di Sabato, domenica e lunedì, 1990). Con la moglie, Job avrebbe firmato più di venti pellicole, nelle quali la sua presenza è così determinante da giustificare l’interrogativo sull’importanza della scenografia in uno spettacolo. Qui la risposta naturalmente non può che essere, “dipende dallo spettacolo”. È vero tuttavia che in una famosa intervista Job stesso, rievocando la sua nutritissima attività - più di cento titoli tra prosa, lirica, grande e piccolo schermo -, disse di avere smesso di considerarla solo come un modo di sbarcare il lunario quando capì di potersi considerare coautore, alla pari col regista. In effetti, alcune sue concezioni sarebbero sembrate prepotenti - il lussuoso salotto da cinema americano anni trenta per la famigliola ebraica di Brooklyn in Vetri rotti, regia di Mario Missiroli, 1995; il grandioso repertorio di quadri e mobili antichi per il miserabile deposito di arredi da noleggio concepito da Eduardo per Le voci di dentro, regia di Francesco Rosi, 2004); in ogni caso, però, comunicavano una festosa, irresistibile felicità di invenzione. Con alcuni registi, Lina a parte, Job ebbe un rapporto particolarmente costante e fecondo, in primis Mario Missiroli, da Verso Damasco, 1978 a Medea di Euripide (1996), ma poi anche con Mina Mezzadri, Francesco Rosi, lo stesso Eduardo. In un paio di occasioni curò egli stesso anche la regia dello spettacolo (le opere liriche Il trovatore, 1990, e Elisabetta regina d’Inghihlterra (1991). Da vero uomo del Rinascimento, infine - colto, curioso, disincantato, segretamente appassionato, umile verso il lavoro e orgogliosissimo della propria competenza - fu anche scrittore, di tre romanzi diversamente autobiografici, il più recente dei quali, Il cavallo a dondolo [...] (2006)» (Masolino D’Amico, “La Stampa” 6/372008) • «Non mi sono mai stancato di raccontare, a proposito di Enrico Job, un remoto scambio di battute fra madre e figlio sopra un vaporetto del Canal Grande. Quel bimbo veneziano oggi sarà un uomo in grado forse di ricordare l’impressione provata vedendosi sfilare davanti, sulla piattaforma esterna di una galleria d’arte, alcune sculture di forma umana nude e allarmanti come calchi pompeiani. Chiese stupito: “Mamma, sono uomini di pane?”. La risposta arrivò secca: “Non dire sciocchezze”. E invece erano proprio “uomini di pane”, scolpiti a immagine e somiglianza di sé e cotti al forno da Enrico. Il quale poi ne trasmigrò uno in Piazza San Marco offrendolo alla voracità dai piccioni. In questo episodio ho sempre intravisto una sintesi metaforica riguardante il geniale artista [...] la fantasia senza confini, la perenne tentazione della novità, il senso tragico dell’esistenza. Un’amalgama troppo fuori dalle regole per essere inteso dagli adulti, ma alla portata del candore di un bambino. Napoletano per caso, lombardo per radici, uscito da Brera avendo affinato un raro talento per la pittura, il nostro voltò presto le spalle a strumenti considerati passatisti come il cavalletto e le tele. Animato dall’istinto di creare qualcosa con le mani, divenne direttore della sartoria del Piccolo Teatro iniziando una carriera che in qualità di costumista e/o scenografo l’avrebbe legato a maestri come Strehler, Missiroli, Ronconi e perfino Laurence Olivier per un Pirandello londinese. Fu invece Eduardo a introdurlo nel cinema offrendogli di vestire i personaggi del film con Mastroianni tratto da Le voci di dentro, la commedia ancora in giro nei teatri che per un caso ha suggellato la sua carriera nell’allestimento di Francesco Rosi con De Filippo figlio. La svolta nell’esistenza di Job fu l’incontro di destino con Lina Wertmüller. All’epoca circolò la battuta “per sposare Lina ci voleva la pazienza di Job”, ma a sorpresa l’unione tra queste due persone immerse in una sorta di ammirazione reciproca riuscì felicissima pur nella diversità di gusti e abitudini. Sempre operante lei in una tumultuosa tribù di sodali, solitario e meditativo lui, lieto ogni tanto di rifugiarsi nel buon ritiro della campagna bresciana al quale dedicò un’evocazione alla Proust edita da Sellerio, La palazzina di villeggiatura. Perché Job si rivelò anche scrittore incisivo; come del resto accettò di imbarcarsi in altre imprese, in prestigiose regìe liriche, tra le quali un memorabile Trovatore a Macerata. Di Lina Enrico ha rivestito di immagini suggestive tutti i film e gli spettacoli con risultati sempre smaglianti e pluripremiati; e a proposito di riconoscimenti, bisogna accennare ai due David ottenuti come art director e autore dei costumi della favolosa Carmen di Rosi riportata alla veritiera cornice ispanica. Tra amici capitava di dolersi che l’artista avesse rinunciato a dipingere e scolpire in proprio, mettendosi al servizio delle visioni altrui con una totale disponibilità che soprattutto agli inizi gli consentì esperienze eclettiche, vedi la collaborazione con Warhol nelle parodie di Frankenstein e Dracula. Per come l’ho visto impegnato in tanti anni tra scena e set, era attento a operare una sintesi fra la sua personalità e le indicazioni degli autori. Ogni volta arricchiva il risultato, ma senza debordare dal suo ruolo: generoso nel donare, pago di partecipare al successo comune. Non c’è dubbio: Enrico Job lascia un’opera multiforme che sarà continuamente rivisitata» (Tullio Kezich, “Corriere della Sera” 6/3/2008).