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 2006  luglio 22 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 LUGLIO 2006

La grande diplomazia si riunisce mercoledì a Roma per una conferenza internazionale cui è appesa l’unica (ultima?) speranza di fermare la guerra tra Libano e Israele prima che degeneri in una mischia pericolosissima per l’intera regione. Guido Rampoldi: «Arriverà Condoleezza Rice. Ci saranno i russi, tutti gli europei che contano, Kofi Annan e le Nazioni Unite, la Banca mondiale, i regimi arabi ”moderati”. Con partecipanti di questo calibro ancora qualche anno fa una conferenza internazionale sarebbe nata sotto i migliori auspici. Oggi è più facile notare che nessuno tra gli invitati ha un’effettiva influenza sull’Iran e sulla Siria, gli sponsor degli Hezbollah; e che pare difficile costruire in cento ore una procedura politico-militare che rassicuri Israele ma conceda inevitabilmente qualcosa ai suoi nemici sciiti». [1]

Non manca tuttavia una ragione per sperare. Rampoldi: «Né Hezbollah né Israele probabilmente volevano questo corpo-a-corpo. I primi confidavano che, come altre volte in passato, Israele avrebbe negoziato la liberazione dei suoi soldati rapiti. A loro volta gli israeliani contavano che per sottrarre il Libano ai colpi, il governo di Beirut avrebbe incalzato la milizia sciita con le buone o con le cattive, fin quando non avesse ottenuto la consegna degli ostaggi. Gli uni e gli altri hanno sbagliato i calcoli. Si sono infilati in una guerra del tipo peggiore, una ”guerra accidentale”, per citare il felice titolo del settimanale Economist: uno di quei conflitti che non si lasciano dirigere, non concedono exit-strategy, e trascinano a fondo, avvinghiati, entrambi i contendenti». [1]

La crisi libanese è giunta a una sorta di stallo carico di incognite. Ennio Di Nolfo: «Da un lato, i combattimenti, il lancio di missili da parte degli hezbollah e la controffensiva israeliana su gran parte del territorio libanese appaiono giunti a un punto di equilibrio psicologico. Gli hezbollah non sono in grado di spingersi oltre il lancio dei missili di cui sono stati riforniti verso una zona ancora più vasta di Israele; dall’altro, il governo israeliano, tenacemente impegnato nella risposta, è però fermo dinanzi all’ipotesi di dare un carattere più massiccio all’azione del suo esercito, poiché appare evidente che tale allargamento avrebbe una portata incalcolabile per tutta l’area. Anche la diplomazia continuava le sue discussioni, senza che nessuna delle vie sinora esplorate apparisse subito percorribile. Il vertice di mercoledì metterà fine, probabilmente, a questo stallo». [2]

A Roma, ha spiegato il nostro ministro degli Esteri Massimo D’Alema, cercheranno di arrivare a un cessate il fuoco, lanciare un’operazione umanitaria, pensare a come stabilizzare l’intera area (compreso l’impiego di una forza multinazionale). [3] Secondo Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, un’attività diplomatica volta unicamente o prevalentemente a ottenere un cessate il fuoco non sarebbe utile né desiderabile: «Non possiamo tornare allo status quo. Se cercassimo solo la fine delle ostilità senza creare le condizioni politiche necessarie, dovremmo poi reincontrarci tra sei mesi di nuovo a discutere delle stesse cose, a parlare di come metter fine alle violenze. Pochi mesi che potrebbero anche essere pochi giorni o poche ore». [4]

Non è casuale che si faccia in Italia, e su iniziativa italiana, la più importante conferenza internazionale sul Medio Oriente da molti anni a questa parte. Emanuele Novazio: « al contrario lo sbocco di una fitta trama di contatti diplomatici avviati da Palazzo Chigi e dalla Farnesina subito dopo l’esplosione della crisi israelo-libanese». [5] Maurizio Caprara: « evidente che, da parte americana, permettere la riunione a Roma mentre il Senato dovrebbe votare il finanziamento delle nostre missioni all’estero, è un favore a Prodi e D’Alema. I pacifisti contrari all’operazione in Afghanistan li insidiano, entrambi risulteranno impegnati per la pace». [6]

La formazione del Gruppo di contatto e la scelta di Roma per la conferenza indicano che Bush vuole seguire il «modello Kossovo», con una risoluzione regionale e insediare ai confini tra Israele e Libano una forza analoga a quella dei Balcani, a base Nato. L’ambasciatore americano all’Onu John Bolton ha dichiarato che difficilmente gli Usa forniranno truppe alla forza di interposizione. Ennio Caretto: «Secondo l’ex negoziatore in Medio Oriente Dennis Ross, il rifiuto dell’amministrazione Bush di praticare la tradizionale diplomazia pendolare (’non farò la spola” ha ribadito la Rice) accentua la responsabilità dell’Europa di mediare, Italia inclusa. Bush, rileva Ross, mira a un Libano democratico, libero dal condizionamento della Siria e dell’Iran, ma non è un obiettivo facile. A Roma, i Paesi europei dovranno perciò avanzare proposte concrete di pace». [3]

Il vertice di Roma potrebbe rappresentare il punto d’avvio di una nuova stagione di protagonismo comune tra Europa e Stati Uniti. Andrea Romano: «Certamente si tratta di una finestra di opportunità per l’Europa, per un suo ruolo di intervento politico e diplomatico là dove si gioca il confronto globale con il terrorismo islamista. Un’opportunità che attende di essere sfruttata con gli strumenti propri dell’Unione europea, che non possono essere solo quelli umanitari. Dinanzi al massacro di civili tra Libano e Israele qualsiasi corridoio o altro accorgimento che porti anche un minimo sollievo sarà salutato come un passaggio fondamentale. E tuttavia la crisi potrà dirsi davvero superata solo se il maggiore realismo di Washington si accompagnerà ad un più incisivo intervento politico dell’Unione europea, che fino ad oggi è sembrata autoconfinarsi nella censura del carattere ”sproporzionato” della reazione israeliana». [7]

L’obiettivo di D’Alema non è ottenere un altro «comunicato» ma «elementi molto concreti di intervento». Novazio: «Per ottenere un cessate il fuoco serve un segnale di discontinuità, si fa notare alla Farnesina: occorre dunque che Siria e Iran convincano Hezbollah a rilasciare i soldati israeliani rapiti. Un risultato non impossibile, a patto che dalla riunione di Roma emerga un forte messaggio unitario. Quanto alla forza di interposizione, sono due le possibilità: una forza gestita direttamente dall’Onu (con i caschi blu dunque), o una forza multinazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La diplomazia italiana punta su quest’ultima soluzione, considerandola più realistica». [5]

Dicono i pessimisti: in Medio Oriente non è patologica la guerra, sarebbe patologica la pace. Vittorio Messori, «uno che per anni è stato ritenuto troppo ”politicamente scorretto”, ma che alla fine ha dimostrato di vederla lunga» (da un’intervista di Michele Brambilla): «Quello che avviene là non fa parte della storia ma della metastoria. Più che l’analisi sociologica, lì conta la profezia biblica. La prospettiva non è politica, ma teologica e perfino apocalittica. Quando trovo sui giornali l’ennesimo saccente che dice la sua senza tenere conto dell’importanza del fattore religioso, ridacchio e giro pagina». [8]

Cominciamo con l’analizzare le tre forze in campo. Messori: «Israele e Palestina sono gli attori sul palcoscenico, ma dietro le quinte ci sono gli Stati Uniti. Anzi, nella prospettiva araba, contendenti sono solo due: loro, gli arabi, e gli Stati Uniti. Per gli arabi Israele non esiste. Nei libri di scuola non è mai neppure nominato. Ciò che vive nel territorio di Israele è chiamato ”Entità Sionista”. E l’’Entità Sionista” per gli arabi è solo la cinquantunesima stella degli Usa». [8]

Le tre forze in campo si muovono in una dimensione teologica. Messori: «Anche Bush è spinto da motivazioni religiose. Fa parte di una corrente protestante oggi maggioritaria negli Usa: i ”Cristiani per Israele”. Sono convinti che la Parusìa, cioè il ritorno di Cristo sulla terra, potrà avvenire solo quando Israele si convertirà. una convinzione tratta da una frase di san Paolo. Il punto è che questi protestanti, di cui Bush fa parte, ritengono che gli ebrei, per convertirsi, devono essere riuniti in un solo luogo. Quindi Bush si batte per una causa non ebraica bensì cristiana: ma comunque religiosa». [8]

Ovviamente anche i musulmani sono mossi da motivazioni teologiche. Messori: «Per l’islam non esiste politica senza religione. Nella prospettiva islamica il mondo è diviso in due: i territori di Allah e i territori di guerra. Quindi fare guerra ai Paesi non islamici è un dovere. Una volta che il terreno è stato ”santificato” dalla presenza islamica, non si può più tornare indietro. Dove oggi c’è Israele, dal nono secolo c’erano i musulmani. E quindi quella terra deve tornare musulmana. Non dimentichiamo che per l’islam Gerusalemme è la seconda città santa, è la città dove riapparirà Maometto alla fine dei tempi. Capito? Per l’islam Israele è un cancro da estirpare. Mi fanno ridere gli analisti che propongono cooperazione economica e reciprocità. Tutti questi discorsi sui confini, sulle spartizioni territoriali eccetera, sono cecità di gente che non conosce la prospettiva religiosa degli islamici». [8]

Pure gli ebrei si muovono in una prospettiva teologica. Messori: «Per l’ebraismo terra e sangue sono inscindibili. E la loro terra è quella, non altre. Per questo, nel corso della storia, il movimento sionista ha rifiutato la proposta di altri territori anche più grandi e più ricchi: in Uganda, in Australia, in Canada, in Etiopia. Gli ebrei non vogliono una terra dove possono stare al sicuro. Vogliono ”quella” terra. Vogliono Gerusalemme». [8]

Come finirà? Messori: «Visto che le motivazioni sono queste, nessuno può cedere. E allora finirà che a un certo punto diventerà soverchiante la disparità numerica: un miliardo di musulmani contro cinque milioni di israeliani. E Israele, quando sarà con le spalle al mare, sarà costretto a usare la bomba atomica». [8]