Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  luglio 21 Venerdì calendario

Paolo Villaggio recita Pirandello

Roma. Paolo Villaggio torna alla scena, e rilegge tre piccoli celebri classici, due atti unici di Cechov e uno di Pirandello. Più che rileggerli, li ha proprio riscritti di suo pugno. «Li ho manipolati» sogghigna serio. Debutta stasera nella Piazza del Popolo di Peccioli, vicino Pisa, nel festival "11 lune a Peccioli" diretto da Andrea Buscemi, e sarà domani sera al VulciFestival nel Parco Archeologico di Vulci a Montalto di Castro (Viterbo), col trittico formato dai suoi brevi testi Il fumo uccide e Una vita all´asta che s´ispirano rispettivamente a Il tabacco fa male e a Il canto del cigno di Cechov, con corredo dell´altro suo pezzo L´ultima fidanzata preso da L´uomo dal fiore in bocca di Pirandello. La regia dello spettacolo è dello stesso Buscemi che stasera ospita il lavoro nella sua manifestazione. Villaggio, quali sono le sue intenzioni: parodizza monologhi illustri, scherza col teatro da camera dell´ultimo secolo, o piuttosto prende qua e là uno spunto per recitare liberamente su temi di oggi? «Intanto le dico che sono cose da me ideate e messe assieme già da due anni. Che tranne la risorsa di certi ricordi non c´è nulla di molto autobiografico. E che davvero, alla base di tutto, m´andava di scrivere. Io mi sono ritirato dalla mischia. Ora leggo e scrivo. E adesso mi sono deciso a fare un test col pubblico. Vediamo se riesco a coinvolgerlo emotivamente. Se sarò divertente, e io per primo sarò divertito, allora ok, ne faccio uno spettacolo che può andare avanti anche due stagioni. Altrimenti lascio stare». Iniziamo da Cechov. Lei reintitola Il fumo uccide la più famosa conferenza-sproloquio contro il tabacco, si presenta in frac... «Io guardo quello che è accaduto negli ultimi nostri cinquant´anni. La cultura del permissivismo, le droghe, gli spinelli, e poi di colpo la campagna anti-fumo. Con la Philip Morris costretta a imprimere terribili avvertenze necrofile sui pacchetti delle sigarette. Il senso è che si può morire. Il tabagista aveva sotterrato l´istinto di morte, e invece gli viene risbattuto in faccia. E ci sono tutti gli input per evitare il vizio: via il caffè, via le colazioni di lavoro, via le passeggiate cantando. E ci sono i sintomi: sudorazione, insonnia, palpitazioni. Io rompo gli schemi, vado tra gli spettatori, chiedo cocaina, e poi come non detto (circa 50 persone del pubblico, per la cronaca, saranno sedute a ferro di cavallo attorno a lui, n.d.r.)». Poi con Una vita all´asta, titolo molto alla Gassman (sappiamo quanto lei gli fosse amico), butta via il frac e indossa, come fa spesso ora, un caftano, trattando l´argomento caro a Cechov di un finale di partita, di un bilancio d´un vecchio attore... «Sì, è un addio al teatro che fa leva scenograficamente su un baule. Dentro ci sono il teschio di Yorick, un candelabro e varie altre cose. Ma qui è questione anche di papere, di lusinghe dei giovani (compresi quelli che si fanno la moglie del grande interprete), o magari di un suggeritore nemico e stronzo che non ha mai apprezzato il primattore. Cito alcuni artisti cui sono stato affezionato, ma confesso che vado molto più sul personale col terzo brano, quello post-pirandelliano». Che le succede, con questa reinvenzione de L´uomo dal fiore in bocca, ribattezzato L´ultima fidanzata, un pezzo né grottesco né mattatoriale come gli altri due? «Racconto d´essere uno che s´accorge di perdere sangue dai denti, che sporca il cuscino, che va dal medico, che fa un check up e chiede che gli si dica la verità, e gli viene risposto che ha un cancro diffuso. "Mi resta un anno?" domando. "Sarebbe culo" mi sento dire con franchezza. Allora esco, mi sento straniero, sfilo una rivoltella a un albanese e me la rivolto contro senza successo. Finché m´attacco ai ricordi. Qui intervengono i "miei" ricordi: gite in Corsica, storie d´amore, il dialogo sull´aldilà con un priore spagnolo, il non rassegnarsi mai...». Scusi, ma non le sembra che in tutte e tre i pezzi si parli di pericolo di morte, di morte presagita, insomma di morte e dintorni? «Mah, sarà. Però affronto la cosa in modo allegro, non cupo. Dimostro che anche gli uomini mediocri, i condannati a vivere, sono migliorati dalla vicinanza della morte. Io non ne ho paura, della morte. Mi scoccia solo d´essere stato lasciato solo dai vari Gassman, Volontè, Carmelo Bene, De André, Marco Ferrero e vari altri importanti, entusiasmanti amici. E allora dopo 30 anni di nottate a perdere, non voglio più uscire. Non mi confortano neanche i giovani che sono portati ad avere rispetto per una mia autorità cui io per primo non tengo». Ma questo spettacolo, soprattutto la prima parte che è un´invettiva contro il fumo, al di là dell´idea della morte non contiene qualche sua stanchezza per eccessi, sregolatezze, abitudini che lei ha avuto? «Io non ho mai bevuto, neanche un caffè. Vengo da una famiglia morigeratissima. Ho un fratello gemello che aveva talento comico ma che per far contento mio padre è professore di matematica. Non lo vedo da anni. Ci sentiamo solo per telefono. sempre lapidario. "Tutto bene?" e attacca. Un animale diverso da me. Ora gli unici eccessi d´emozione me li dà ad esempio un nipote di 21 anni che vive a Londra. Nel frattempo non faccio più neanche zapping con la televisione. Mi sono ritirato. Rileggo moltissimo certi autori. Kafka, Dostoevskij, Roland Barthes. M´arricchisco così. E menziono passi interi spacciandoli per miei. Come difendersi, sennò, da questa società televisiva involgarita fatta di veline e imitatori, di presenzialismo disperato? Dove ci si mostra solo per essere. E non si è». Rodolfo Di Giammarco