Gaia Piaccardi, Corriere della Sera 20/7/2006, pagina 51, 20 luglio 2006
Krieger, un’anima divisa in due. Corriere della Sera, giovedì 20 luglio Magdeburgo. Aspetta sulla porta del negozio alla periferia di Magdeburgo, sotto un cielo grigio e pesante come questa storia di sport e natura violentata
Krieger, un’anima divisa in due. Corriere della Sera, giovedì 20 luglio Magdeburgo. Aspetta sulla porta del negozio alla periferia di Magdeburgo, sotto un cielo grigio e pesante come questa storia di sport e natura violentata. In vetrina divise militari, tute mimetiche, anfibi e mostrine, gli oggetti in risonanza con la sua nuova vita. Le gambe piantate nell’asfalto del marciapiede. Jeans e sandali, con calze bianche. Una camicia attillata che mette in risalto pettorali gonfi. Braccia da camallo, capelli radi, pizzetto folto. Se non sai, non lo diresti mai. La stretta di manoè una tenaglia: «Piacere, Andreas». Andreas Krieger è stato Heidi Krieger dal 20 luglio 1966 all’inverno 1997, quando ha deciso di sottoporsi all’operazione per cambiare sesso. In mezzo, tra la prima e la seconda esistenza, il meglio e il peggio dell’ex Ddr: la voglia di emergere sull’Occidente e sui sistemi capitalisti, lo sport come nucleo di appartenenza e di affermazione, il doping, i muscoli stravolti dagli ormoni, la depressione, un tentativo di suicidio, la rinascita con un nuovo sesso, un nuovo nome, una nuova compagna. Certe cose, però, non possono cambiare perché Heidi è sempre qui, prigioniera nel corpaccione di Andreas, dentro la sua emanazione totalmente maschile e la sua camminata da cowboy, nelle narici grosse che si spalancano per soffiare fuori il fumo di una Marlboro infinita, l’occhiolino schiacciato per ammiccare a una donna, l’orgoglio nell’esibire la foto con la moglie, Ute Winter, che sa e che lo ama, la ama, per quello che Heidi, e Andreas, è. Un’anima persa. «Sono nato a Berlino, ma dalla parte sbagliata: al di là del Muro. Unica figlia femmina fra tre fratelli maschi. Sono cresciuto con loro, donna tra gli uomini, sentendomi sempre più escluso e più solo. L’atletica era l’occasione di entrare finalmente a far parte di un gruppo, quello delle lanciatrici del peso e del disco. Non mi ero mai sentito così amato e rispettato». All’epoca, fine anni ’80, Andreas era ancora Heidi, giovane e mascolina stella della Nationalmannschaft, la maglia della temuta squadra della Ddr è qui sul tavolo, nel retro del negozio di divise e mostrine saturo di fumo, scatoloni e rimpianti. Rovescia un sacchetto di plastica del supermercato, ne esce un groviglio di medaglie e scudetti: «I trofei più importanti li ho regalati a un’organizzazione tedesca che si occupa delle vittime del doping. C’è anche un premio che porta il mio nome. Si chiama trofeo Heidi Krieger perché molte persone mi ricordano così...». Un body da gara, un album pieno di ritagli di giornale, titoloni e fiumi d’inchiostro per la promessa della Ddr drogata per umiliare la Germania Ovest. Tanti ricordi, troppi per chi ha scelto di dimenticare. Poi Andreas tira fuori dall’armadio una foto, Heidi che vince l’oro agli Europei di atletica dell’86. La scruta come osservasse l’immagine di una parente lontana, chiedendosi come sta, cosa fa, se si è sposata e ha figli. Si siede a gambe larghe, nell’imitazione di se stesso. Dice: «Con il passato ho chiuso. Nel vedere queste foto e queste medaglie non provo niente. So che molti di questi trofei non sono merito mio: prendo ormoni e steroidi da quando avevo 15 anni. Mi dicevano che erano vitamine, che mi avrebbero aiutato a sviluppare la muscolatura e a sopportare la fatica degli allenamenti. Quelle blu erano pasticche di sostegno, secondo loro. Vedevo il mio fisico cambiare, giorno dopo giorno. Il ciclo mestruale sparì, apparvero i primi peli...». Perché non hai detto no, Andreas, perché hai lasciato che assassinassero Heidi? «Legavo lo stravolgimento fisico alle tecniche di allenamento, mi guardavo intorno e vedevo che le compagne di squadra erano come me». E poi la lusinga dell’ego: i successi, le trasferte, le interviste, la Ddr fiera del suo prodotto. La seduzione del doping: «Più vincevo, più mi sentivo accettato. Ero finalmente qualcuno». Non c’è emozione nelle parole di Andreas. un racconto gelido, impersonale, quasi in terza persona, interrotto dalle sigarette e dai clienti da servire. «No, loro non sanno. Il passato che mi porto addosso è innegabile, non desidero alcun tipo di pubblicità». Ma se ti spingi oltre la maschera, al di là dell’aspetto spavaldo e un po’ volgare del commesso di Magdeburgo, ad aspettarti c’è Heidi, o quel che resta di lei. Succede quando Andreas spiega di non credere in Dio né in un’intelligenza superiore e nemmeno nel destino. E allora a chi ti rivolgevi, anima in pena, nei momenti più bui? «Al mio cane, che quando tentai di suicidarmi tagliandomi i polsi nella vasca da bagno mi salvò la vita. Sentii il suo naso freddo e umido toccarmi il braccio. Stavo per andarmene, quel contatto mi fece riaprire gli occhi». Ce l’hai ancora? « morto. stato il mio amico più grande». Adesso Andreas ha gli occhi pieni di lacrime. Toglie una mano dalla tasca dei jeans per asciugarle con un gesto leggero, femminile. Rieccola, Heidi, per un attimo. Nel 2000 Andreas Krieger è stato uno dei principali accusatori al processo contro Manfred Ewald e Manfred Höppner, direttore e responsabile medico del programma sportivo dell’ex Germania Est. «In tribunale sono uscito allo scoperto e ho conosciuto la donna più bella del mondo, Ute». Oggi è sua moglie. «Spiegazioni per tutto quello che è successo? Non ne ho. Non so cosa ne sarebbe stato di me senza doping. Certamente del mio sesso, come donna, sarei sempre stato insoddisfatto. Forse gli steroidi hanno solo accelerato il processo verso il cambiamento. Oggi sarei una donna profondamente infelice...». E, come uomo, sei felice Andreas? «Ho chiuso i conti con il passato, ho fatto condannare i miei carnefici, mi sono innamorato e ho una ragazza, la figlia di Ute, che ha 19 anni e conosce la verità. Ho trovato un mio equilibrio, una mia serenità. Anche se prendo ancora ormoni per mantenere la virilità. Ogni tanto, alla tv, mi piace seguire le gare di atletica. E ho l’impressione che, dai miei tempi, non sia cambiato molto». Heidi non è morta. una compagna di viaggio presente e vitale. qui, anche ora, e abbassa gli occhi per raccontare l’ultima, faticosissima, verità. «Dire che Heidi non esiste più sarebbe una bugia. L’ho chiusa in uno sgabuzzino, ma ogni tanto riesce a uscire. L’altro giorno sono andato con mia moglie in una piscina che frequentavo quando ero Heidi. Sono stato assalito dai ricordi, al punto che ho dovuto sedermi per non svenire. Ho avuto la sensazione che mi stesse ricrescendo il seno. Me ne sono andato». Una battaglia quotidiana. «Ho paura: se mi distraggo, Heidi vince su Andreas». Gaia Piccardi