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 2006  luglio 16 Domenica calendario

La dura legge della stradaimpossibile da rispettare. La Repubblica 16 luglio 2006. Passo dello Stelvio

La dura legge della stradaimpossibile da rispettare. La Repubblica 16 luglio 2006. Passo dello Stelvio. Li rubano, lo sapevate? In una città non particolarmente cleptomane come Bologna spariscono una cinquantina di segnali stradali ogni anno, senza apparente motivo. Succede di notte: un lieve tintinnar di cacciaviti e brugole, e via gli stop, via i divieti di sosta, che per quelli forse una ragione utilitarista c´è, ma via anche inspiegabilmente la curva pericolosa a destra, che è addirittura il segnale più sgraffignato, vai a capire se per appeal erotico o politico. Forse li appendono in casa, come oggetti d´arredamento, quadri postmoderni, opere d´arte involontaria. Insomma in qualche modo gli italiani li apprezzano, i cartelli della buona educazione automobilistica; quando vogliono, li vedono, e perfino li ammirano. Ma non li rispettano. Almeno, non con l´obbedienza "senza se e senza ma" che è dovuta alla legge. Perché i segnali stradali non sono altro che questo: legge fatta icona, norma che s´impone attraverso gli occhi. Ma se tento di farlo capire a quello della Mercedes che mi sta dietro, mi sfiora il paraurti, sfanaglia come un lunapark, gesticola come un prestigiatore impazzito attraverso il parabrezza, se provo a dirgli col linguaggio dei gesti che sono sceso ai cinquanta perché c´è un cartello (eccolo lì, glielo indico col dito) che mi vieta di andare più veloce, il gesto che ricevo in risposta è di quelli che non c´è bisogno di descrivere. Un po´ magari ha ragione, perché questo bel rettilineo tra Morbegno e Sondrio invoglia a pigiare un po´ il pedale, ma se qualcuno ha stabilito che invece non si può, ci sarà una ragione, no? Ci sarà, non è vero? Chi lo sa. Ci sono dodici milioni di segnali sugli 830 mila chilometri di strade italiane. Accumulati, sovrapposti, giustapposti uno all´altro in cent´anni quasi tondi. Un esperimento semiologico di proporzioni colossali, ma anche una babele che nessuna autorità centrale è più in grado di controllare e coordinare. Dimenticati lì da cantieri ormai rimossi, piazzati chissà quando a segnalare ostacoli ormai scomparsi, decretati da amministrazioni diverse, scoordinate e smemorate, logorati, ammaccati, incoerenti: uno su tre - ha scoperto una ricerca del centro studi 3M per il "Progetto Arianna" del Tci - è fuorilegge. Signs, signs everywhere, cantava una rock band anni Sessanta. Un labirinto di messaggi, un´anarchia comunicativa che ha finito per produrre il contrario di quel che intendeva: assuefazione, distrazione, la sorda ribellione dell´indifferenza. Averlo spiegato cent´anni fa a Luigi Vittorio Bertarelli, che andava a finire così, non ci avrebbe creduto. Un uomo positivo, anzi positivista, il fondatore del Touring club italiano. Credeva fermamente nella capacità umana di migliorare il mondo. Personalmente, si assunse il compito di rendere più comoda e sicura la vita del viaggiatore su ruote; e nel 1903, tagliando corto con i primi sporadici e disordinati tentativi, propose di cartellizzare in modo organico le vie d´Italia, per millenni costeggiate solo da antiche pietre miliari, cominciando proprio da quella che sto percorrendo, che adesso si chiama Statale 38, ma che allora era solo la Milano-Stelvio, strada di austeri natali asburgici, itinerario amato dai ciclisti più eroici, e anche dai pionieri della carrozza auto-mobile. Quelli progettati da Bertarelli erano cartelli eleganti, a lettere bianche su sfondo turchino, con frecce art déco e la traduzione dei simboli in parole, necessaria in un´era di cultura ancora letteraria e pre-visuale: "Svolto pericoloso", "Pendenza accentuata". Prima che un accordo internazionale, negli anni Trenta, intervenisse a uniformarli in quell´alfabeto di triangoli rettangoli e cerchi che ancora oggi impariamo a scuola guida, i paleo-segnali erano una versione in lamiera verniciata dei manualetti Baedeker. Certuni riportavano anche, a grandi lettere, il nome del donatore, perché il Tci era un ente privato e non ricchissimo: con dieci lire si entrava nel pantheon delle banchine, con venti si poteva anche decidere dove. Il dottor Vittorio Dallari, ad esempio, regalò la "Discesa pericolosa" al km 240 della Modena-Pistoia; il conte Ernesto Garulli, donò la freccia per Fermo sul muro della chiesa di Porto San Giorgio. Così personalizzati, quei cartelli acquistavano in autorevolezza: come consigli impartiti dal viaggiatore più esperto al novizio. Impossibile ignorarli, a quell´epoca: erano presenze inedite nel paesaggio, erano i segni della modernità che aggredivano un paesaggio ancora rurale. Infatti i contadini li detestavano, li sabotavano, li abbattevano. Sarebbe bello averlo seduto qui accanto, nel posto del passeggero, il buon Bertarelli, e contare assieme a lui quanti segnali ci sono oggi, cent´anni dopo il suo civilissimo suggerimento, sul bordo della strada sperimentale. Ebbene, ecco: ce ne sono 2479, salvo sviste e distrazioni. Tanti quanti ce n´erano in tutta intera la Penisola nel 1905. Distribuiti sui 219 chilometri di percorso da piazzale Loreto fino al passo, fa un cartello ogni 88 metri e rotti. Viaggiando alla media dei sessanta all´ora, vuol dire che più o meno ogni cinque secondi la mia attenzione di guidatore è chiamata ad avvistare, riconoscere, decifrare e reagire a un messaggio visuale che mi vieta, mi impone o mi propone qualcosa. chiaro a chiunque che neppure la più allenata delle menti umane può sostenere a lungo la dura ginnastica di un tale sforzo d´attenzione. Infatti, i più non ci provano nemmeno. Mentre vado così ragionando, quello della Mercedes ha ingranato la terza e mi ha dato la polvere, spernacchiando in un colpo solo i segnali di divieto di sorpasso, velocità massima e curva pericolosa. Con la coscienza pulita, ci si può scommettere. Perché nella strada iper-codificata, sovra-comunicante, assediata da messaggi di ogni genere e specie, istituzionali, commerciali, civici, turistici, abusivi, dove la lingua della legge è diventata un frastuono di urla incoerenti e sovrapposte, il patto civile si rompe per esasperazione e per esagerazione, e l´automobilista torna allo stato di natura. Tanto, ormai, la strada la legge il navigatore satellitare. Al rumore visivo che cerca di attirare la sua attenzione dal bordo della carreggiata il guidatore presta ormai uno sguardo automatico, laterale e drasticamente selettivo, come se i cartelli non fossero lì per lui. E ha ragione. I segnali stradali non servono più a garantire la sicurezza del viaggiatore, ma a sollevare da ogni responsabilità il gestore della strada: l´Anas, il Comune o chi per loro. Quel cerchio rosso col numero 30, ad esempio, non vuol dire davvero che devo stare sotto i trenta all´ora. Il suo messaggio reale è: «Io ti consiglio di andare piano, tu fai quel che ti pare, ma a tuo rischio; se ti schianti sopra i trenta non te la prendere con me». Altrettanto inconsciamente l´automobilista risponde: «Va bene, mi hai avvisato, però adesso decido io qual è la velocità giusta». I cartelli non sono più tavole della legge, espressione di doveri universali (che nessuno del resto fa rispettare: 2.467 cartelli, ma nessun poliziotto). Sono la base d´asta di infinite contrattazioni private, il canovaccio di un mercimonio tribale tra la prepotenza del singolo e l´astratto, debole potere della collettività. Sono una commedia sociale di cui tutti conosciamo la finzione. Svincolati in questo modo dai loro doveri pratici, i cartelli diventano elementi di una particolarissima arte visuale che i creativi di Colors qualche tempo fa hanno studiato e raccolto in un libro. Ecco un bell´esempio: un segnale di «inizio galleria», sul lungolago di Como. Quadrato blu col simbolo di una galleria, piazzato all´ingresso della galleria reale. Icona appiccicata al suo referente, un po´ come faceva l´artista concettuale Joseph Kosuth esponendo una sedia vera accanto a una fotografata, per smontare l´illusione del linguaggio. Come se, affetti da una patologia semiotica devastante, non riuscissimo più a vedere il tunnel se non attraverso la sua rappresentazione. Poco prima di Colico m´imbatto perfino in un meta-segnale: «Fra cento metri, cartello a messaggio variabile». Almeno qui, nel mondo d´asfalto, sembra aver ragione Baudrillard: non c´è più la realtà, esistono solo simulacri. Immagini di immagini. Ma la strada è reale. I suoi pericoli non sono virtuali. Esigono ogni anno un tributo di vite umane da catastrofe naturale: sei, settemila morti, che nessuno dei nostri dodici milioni di segnali è riuscito a evitare. Al chilometro 70 della Ss38 qualche buon samaritano ha scritto con lo spray fluorescente su un masso, prima di una curva a gomito, a grandi lettere maiuscole: «Vai piano!». Commuove questo messaggio improvvisamente umano, questo tentativo estremo di riattivare l´attenzione distratta. E fa capire che, per svegliare la prudenza sopita, bisogna uscire dal codice ormai muto della segnaletica ordinaria, bisogna creare messaggi imprevisti, nuovi, sorprendenti. Ma senza eccessive speranze: se i segnali fai-da-te proliferassero, anch´essi presto cadrebbero nel pozzo dell´impercettibile. Allora, sarebbe forse meglio finirla qui. Dichiarare chiuso un secolo di codice visuale della strada. Toglierli tutti, o quasi, i cartelli stradali. Disboscare la foresta tropicale dei segni, ammutoliti per eccesso di comunicazione. Nel nord Europa un ingegnere civile di 59 anni lo sta proponendo. Di più, lo sta facendo. Nel paesino di Drachten, in Frisia, su mandato sperimentale dell´autorità del traffico, toglie gli stop ottagonali, toglie i triangoli rossi con la punta in giù, toglie perfino i semafori e le strisce pedonali. Si chiama Hans Monderman, e un anno fa spiegò così la sua teoria al New York Times: «L´unica cosa che i segnali comunicano all´automobilista è: questo spazio è tutto tuo, vai tranquillo. Ma proprio questa sicurezza produce incidenti». Toglie i segnali e complica le strade: le pavimenta a sampietrini, ci pianta in mezzo alberi e fontane, imbroglia i confini tra carreggiata e marciapiede. La sua strategia ha un nome che suona curioso a noi latini: woonerf, significa più o meno paesaggistica stradale, e costringe il conducente ad assumersi interamente la responsabilità delle scelte di guida, senza demandarle a simboli che ormai non vede più, a cui non obbedisce, ma che gli comunicano la pericolosissima sensazione che qualcun altro provveda alla sua sicurezza. L´espulsione dei segnali, invece, lascia brillare una sola regola: «Fai attenzione». Dicono che l´esperimento stia funzionando, che gli incidenti, nel paesino frisone, siano diminuiti. Ma dev´essere un po´ come i digiuni satyagraha di Gandhi, che mandavano in crisi la coscienza degli inglesi solo perché gli inglesi una coscienza da qualche parte ce l´avevano. Gli olandesi un senso civico, magari assopito, lo possiedono. Ma in Italia, dove la cultura delle regole è un deserto disabitato, la sparizione dei segnali non sarebbe un catastrofico "liberi tutti"? Conviene forse tenerselo stretto, questo blaterar di cartelli senza autorevolezza, per timore di maggiori anarchie? "Tornante", mi avverte all´improvviso uno di loro. Cominciano le auguste svolte disegnate col compasso dall´ingegner Donegani nel 1820, croce e delizia di Coppi e Bartali. Ce ne sono 34 per arrivare in cima allo Stelvio salendo da Bormio, e 48 a scendere dalla parte di Trafoi. Sono i tornanti più famosi del mondo. Chi sale al passo li ammira anche più del paesaggio selvatico. Non vorranno mica segnalarmeli uno per uno? No, anche i cartelli a questo punto cedono. Prima un segnale accumula "Due tornanti". Poi: "Quattro tornanti". E poi, in un colpo solo e definitivo, "Quattordici tornanti", e arrangiati. Dopo c´è ancora un ultimo cartello, "Passaggio marmotte", con la sagoma nera del roditore dentro il triangolo rosso. Poi basta, tace la semiotica stradale, esausta o forse solo rispettosa della possanza naturale; poi solo neve, pietre, cielo; e lassù un falco che plana, lento, maestoso, incredibilmente non segnalato. Michele Smargiassi