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 2006  luglio 16 Domenica calendario

W. La Repubblica 16/07/2006. La cosa che avrà rimpianto di più, guardando il mondo da dove si trova adesso, è di non essere stato a New York il giorno in cui due aerei di linea sono entrati dentro le Torri gemelle

W. La Repubblica 16/07/2006. La cosa che avrà rimpianto di più, guardando il mondo da dove si trova adesso, è di non essere stato a New York il giorno in cui due aerei di linea sono entrati dentro le Torri gemelle. Quelle immagini Andy Warhol le avrebbe ciclostilate, serigrafate, serializzate, montate in una frenetica sequenza che avrebbe occupato un intero padiglione del Whitney, del MoMa o magari del museo di Pittsburgh che porta il suo nome. Eventi mediatici di questo tipo gli facevano scattare la scintilla. Per lui contavano solo l´immensamente piccolo e l´incommensurabile, l´anonimato e la celebrità, l´abietto e il sublime. Quel che sta nel mezzo non è alimento per gli artisti, non per quelli della Pop Art, e lui ne fece allegramente, provocatoriamente a meno. Si lasciò strappare da New York, la città di cui era diventato un simbolo - quattordici anni prima che la follia di cui aveva diagnosticato i sintomi riducesse in frantumi le Twin Towers - a causa di una banale infezione alla cistifellea che la riluttanza a mettersi nelle mani di un dottore aveva trasformato in patologia grave (il 22 febbraio 2007 sarà il ventennale della morte). Aveva 59 anni, un´età in cui un vate della comunicazione avrebbe avuto ancora molto da dire; sarebbe stato più in guardia se avesse saputo che le sue formidabili intuizioni si stavano rapidamente traducendo in realtà, che Internet ne stava per ingigantire forme e contenuti, che un manipolo di uomini disposti a morire avrebbe messo a soqquadro l´America e il mondo regalando a fotografi e cineoperatori le più spettacolari immagini non-fiction di un intero secolo. Nel mondo di Andy Warhol, dove tutto è larger than life, è impossibile entrare in punta di piedi. L´ultimo volume che si propone di raccontarlo pesa sette chili e misura quasi mezzo metro in altezza. Sarebbe un prezioso libro da capezzale, con tutte quelle immagini e piccole storie raccontate a margine, se non si rischiasse di venir sepolti dal voluminoso tomo qualora il sonno prenda il sopravvento sulla curiosità. Andy Warhol - Giant Size (Phaidon, pagg. 624, euro 90) si può agilmente sfogliare solo su un leggio, o scomodamente (sempre per via del peso e del formato) seduti sul divano di casa. Chi si annoiò a morte con i Diari di Andy Warhol curati da Pat Hackett (De Agostini), pubblicati due anni dopo la morte, che dietro la facciata del genio scoprivano le coordinate di una piccola vita quotidiana annotata con maniacale meticolosità (appuntava anche i due dollari e mezzo del taxi per andare da casa al ristorante), si divertirà pazzamente a sfogliare Giant Size, proprio perché la proverbiale tirchieria di Warhol e la nevrotica tendenza a collezionare anche scontrini e biglietti aerei, fatture di ristoranti e cartoline, piantine di città e vecchie banconote, ha fornito all´editore una oceanica quantità di materiale iconografico dal quale attingere. Diceva, volete scoprire tutto di me? Quel che faccio mi racconta alla perfezione. Mai nessun libro prima di questo, però, aveva esplorato visivamente la relazione perfetta che esiste tra la sua vita e la sua arte, in un mondo, quello che caparbiamente si era costruito e che chiamava Factory, nel quale per più di un decennio orbitarono con disinvoltura, allegria e creatività star e icone della controcultura. Si era messo in mente di visualizzare l´identità culturale dell´America del Novecento partendo da due oggetti di consumo come il barattolo della zuppa Campbell´s e la bottiglietta della Coca-Cola. «Andy Warhol, allora conosciuto come Andy Warhola, arrivò a New York da Pittsburgh nell´estate del 1949 e immediatamente si mise in cerca di lavoro presso riviste e agenzie pubblicitarie. Fu Glamour la prima a offrirgli un ingaggio, e lì iniziò la sua ascesa come uno dei più illuminati illustratori pubblicitari degli anni Cinquanta», scrive Kenneth Goldsmith in Giant Size. E Dave Hockey: «Nel 1963 lo studio solitario dell´artista si trasformò in una creativa multinazionale. La chiamò Factory. Si trovava al numero 231 della 47esima Est di Manhattan ed era aperta a tutti i visitatori - barboni e aristocratici, travestiti e debuttanti di sangue blu, papponi, puttane, scrittori, artisti, psicopatici, sociopatici, spacciatori, attori, rocker e criminali d´alto bordo. Andy li mise tutti sullo stesso piano e li trasformò in star, spingendoli implacabilmente a recitare i ruoli di se stessi, in pubblico e a voce alta, sui dischi e nei film, mentre la sua celebrità cresceva a dismisura di luce riflessa. La Factory fu il capolavoro di Andy, innocente e consapevole in parti uguali, mecenate e sfruttatore in ugual misura: la disordinata, pericolosa realizzazione della sua visione democratica dell´arte». Della propria omosessualità non fece mai mistero, ma neanche ostentazione (il primo autoritratto en travesti è dei primi anni Ottanta), anche se ebbe la fortuna di vivere in un´epoca in cui gli eccessi non erano ancora giudicati col metro severo del conformismo. La Factory, che l´America di oggi metterebbe al bando, divenne il fulcro creativo della Manhattan di quegli anni. Il padrone di casa era un tipo quasi anonimo in camicia, giacca e papillon che i tabloid fotografavano sulla via di casa con la busta della spesa. Gli ospiti erano proiezioni della sua fantasia sfrenata, qualche volta perversa, e della sua multiforme personalità. «Preferirei rimanere un mistero. Non mi piace parlare del mio passato, ogni volta lo racconto in maniera diversa. Non per crearmi un´immagine, ma proprio perché dimentico quel che ho detto la volta precedente. In effetti, non penso di avere un´immagine», diceva. Del suo culto per la celebrità fece un´arte. Era un socialite e allo stesso tempo un eremita. La Factory esprimeva tutto il glamour che l´anonimo Warhola da solo non riusciva a trasmettere. E quando divenne famoso come le "stelle" che ispiravano i suoi quadri (la Gioconda, la sedia elettrica, Jackie Kennedy, Truman Capote, Marilyn Monroe, James Dean, Marlon Brando, Elvis Presley, Elizabeth Taylor - e qualche "stellina" che era l´infatuazione del momento, come il Troy Donahue di Scandalo al sole), incominciò a parlare come una vamp: «Come faccio a mantenere la linea? Al ristorante ordino quel che non mi piace»; «Mi piacciono le cose noiose»; «Non leggo mai, guardo solo le figure»; «Non volevo fare il pittore ma il ballerino di tip tap»; «Diventare ricchi non è divertente come una volta»; «Perché dipingo dollari? C´è qualcos´altro che ci piace di più?». Da una copertina di Harper´s Bazar di Herbert Bayer del 1940, in cui il volto di una modella era ripetuto otto volte con la bocca ingigantita e trattata in giallo blu rosso e verde, maturò l´idea che l´avrebbe trasformato in uno dei maestri della Pop Art: «Ho cominciato a serializzare le immagini perché m´intrigava il fatto che la ripetizione cambiava l´immagine stessa». Con Warhol finirono nelle gallerie d´arte anche gli oggetti di uso comune: polveri abrasive puliscipentola, confezioni di cornflakes, pacchi di caffè e saponette. «Sono stato influenzato da tutto. Ma questo è bene, questo è Pop», diceva l´artista, che agli esordi aveva disegnato scarpe più pazze di quelle di Manolo Blahnik. Nel momento stesso in cui la Factory diventò una realtà, Warhol era già un artista multimediale. «Andy girò il suo primo film, Sleep, nel 1963 - sei ore di sonno del poeta John Giorno. Il mondo dell´arte e quello del cinema ne furono in ugual misura scandalizzati», ricorda Kenneth Goldsmith. Nel 1964 ne girò altri tre. In Eat si vedeva per 30 minuti l´artista Robert Indiana che mangiava un fungo (psichedelico naturalmente). In Blow job scrutò l´espressione del volto di un uomo al quale praticavano una fellatio. Per realizzare Empire piazzò una camera fissa davanti al grattacielo più famoso di Manhattan: durata otto ore. Chelsea girls (1966) fu il primo successo di critica; ormai la Factory aveva le sue star, come Joe Dallesandro, delinquentello che Warhol aveva strappato alla strada e aveva trasformato nel sex symbol di Flesh e più tardi avrebbe fotografato in jeans e pacco bene in vista per la copertina di Sticky fingers dei Rolling Stones (1971). Gli altri avevano nomi più fantasiosi: Mario Montez, Ingrid Superstar, Candy Darling, Ultra Violet, Holly Woodlawn, Edie Sedgwick, ereditiera e top model morta nel ’71 per overdose di barbiturici. Andy la idolatrò come la Marilyn di una nuova era e con lei si fece ritrarre in quella meravigliosa pubblicità bianconero per Betsey Johnson in cui i due sembrano volare davanti all´Empire State Building. In una visita alla Factory, Jim Morrison dei Doors conobbe la bella ed enigmatica Nico, modella, attrice e cantante tedesca. Il tastierista Ray Manzarek racconta nella sua biografia dei ripetuti «assalti sessuali» della bionda teutonica alla rockstar, descrivendo nei minimi particolari una "performance" di sesso orale che durò una notte intera. Warhol aveva imposto Nico al gruppo dei Velvet Underground, fondato da Lou Reed e John Cale. Per lanciare la band, l´artista studiò uno spettacolo di suoni, luci psichedeliche e danze intitolato Exploding Plastic Inevitabile, al quale parteciparono anche Gerard Malanga e Edie Sedgwick. Di più, disegnò la copertina del loro album d´esordio (1967, quella con la banana su fondo bianco), che rimane una delle più ricercate e originali della storia del rock. L´anno successivo l´attrice e scrittrice Valerie Solanas (1936-1988), uno degli ultimi acquisti della Factory, gli scaricò tre proiettili in corpo. «Sono una bambina in fiore, lui controllava la mia vita», disse, lo sguardo da folle, mentre i poliziotti la ammanettavano a Times Square (3 giugno 1968). Della corsa in ospedale e della selva di cicatrici che gli restarono sul petto (Lou Reed ci scrisse la canzone Andy´s chest), Warhol disse: «Solo il dolore è reale, tutto il resto intorno è solo un film». Nell´autunno del 1969 fece uscire la prima copia del suo magazine, che aveva come direttore il fido Gerard Malanga, inter/VIEW (sotto la guida di Bob Colacello e Glenn O´Brien è diventato Andy Warhol´s Interview e infine Interview). Dicevano che a volte era ingeneroso e crudele con i suoi artisti. Qualcuno degli attori svelò di essere stato pagato 25 dollari per una giornata di lavoro. Anche con il suo ultimo rampollo, Jean-Michel Basquiat (1960-1988), il quale aveva dipinto un giubbotto di pelle bianca che Andy non smetteva mai d´indossare, i rapporti furono burrascosi. Ma quando parlava di comunicazione, Warhol continuava ad elargire perle di saggezza, prevedendo persino il dilagare dei reality show televisivi: «I film saranno i nuovi romanzi. Nessuno leggerà più»; «In un futuro prossimo venturo tutti avranno il loro quarto d´ora di celebrità». Al tempo in cui era il principe dell´underground newyorkese, Warhol aveva eletto un piccolo club, il Max´s Kansas City, a suo ideale rifugio notturno. Poi, travolto dalla mondanità, non mancava una sola festa di vip allo Studio 54. Diceva: «Ho una malattia sociale, devo uscire ogni sera». In Piazza San Pietro, il 2 aprile 1980, riuscì a stringere la mano di Giovanni Paolo II, non certo intrigato dalla spiritualità quanto dal potere del grande comunicatore. «Quando morirò», diceva, «mi piacerebbe scomparire. Non direbbero è morto oggi, direbbero è scomparso. Mi piace l´idea della gente che si trasforma in sabbia, sarebbe molto glamorous reincarnarsi in un grande anello al dito di Elizabeth Taylor». Giuseppe Videtti