La Stampa 18/07/2006, pag.32 Roberto Beccantini, 18 luglio 2006
Generazione Donadoni. La Stampa 18 luglio 2006. Cominciamo col ricordare a Roberto Donadoni, primo ct votato dai giocatori e da oggi ufficialmente in pasto ai media, che il commissario più vittorioso nella storia del calcio italiano è stato un giornalista
Generazione Donadoni. La Stampa 18 luglio 2006. Cominciamo col ricordare a Roberto Donadoni, primo ct votato dai giocatori e da oggi ufficialmente in pasto ai media, che il commissario più vittorioso nella storia del calcio italiano è stato un giornalista. Vittorio Pozzo. Due Coppe del Mondo su quattro (1934, 1938), una Olimpiade su una (1936). Torinese, di umili ma fiere origini biellesi, lavorava per la Pirelli e faceva l’inviato de «La Stampa» quando il presidente della Federazione, Leandro Arpinati, quello dello scudetto revocato al Torino per il caso Allemandi, gli offrì la Nazionale. Era la terza volta che Pozzo la allenava: sarebbe stato il periodo più fecondo e più lungo (1° dicembre 1929-5 agosto 1948). Non capita a tutti di poter chiosare l’impresa della propria squadra. A Pozzo capitò. Ecco come, sulle colonne de «La Stampa», descrisse il trionfo del ’34: «L’Italia non trovò certo la via cosparsa di rose, Spagna, Austria e Cecoslovacchia furono tre autentici macigni da rimuovere». Un altro giornalista che ebbe voce in capitolo è stato Aldo Bardelli: faceva parte della commissione presieduta da Ferruccio Novo, l’architetto del Grande Torino, in carica nel 1950. Altri tempi. Soprattutto, altre distanze. I Mondiali si disputavano in Brasile, si narra che proprio Bardelli spinse per il viaggio in nave. Fu un disastro. Ah, le commissioni. Ne siamo andati sempre ghiotti. Il direttorio che avrebbe dovuto portarci in Svezia, nel 1958, e invece si arenò a Belfast, sembrava una squadra: allenatore, Alfredo Foni; formazione: Pasquale, Schiavio, Tentorio, Marmo e Biancone. Gli oriundi, preziosi e decisivi negli Anni Trenta, questa volta fecero cilecca. In campo, contro l’Irlanda del Nord, ce n’erano quattro: Da Costa, Schiaffino, Montuori, Ghiggia, poi espulso. Perdemmo 2-1. Il gol-bandiera lo segnò Da Costa. Ci aspettava Pelè. L’appuntamento slittò di dodici anni, a Messico ’70. La figura del commissario unico affiora con Edmondo Fabbri, il creatore del miracolo Mantova. Nessuno, come lui, è rimasto legato a una partita: la Corea di Middlesbrough. Era bravo, Mondino, ma l’onta di quel clamoroso k.o. lo accompagnò sino alla tomba. La sua Nazionale si trasformò nel manifesto della guerra fra catenaccio (blocco-Inter) e gioco d’attacco (Rivera). Il compromesso venne spazzato via da un tizio che spacciammo per dentista: Pak Doo Ik. Fabbri aveva portato in Inghilterra, ma in gita premio, un giovane bomber che avrebbe potuto risolvergli i problemi: Gigi Riva. Ferruccio Valcareggi era uno degli assistenti di Fabbri. Colui che aveva definito i coreani «dei Ridolini». Uomo di Artemio Franchi, raccolse i cocci inglesi, prima con Helenio Herrera, nemico giurato di Mondino, poi da solo. Diede slancio e smalto alla tipologia dell’allenatore federale. Gli dobbiamo l’unico titolo europeo, nel 1968, e la saga messicana della staffetta Mazzola-Rivera, culminata nella celeberrima Italia-Germania 4-3. Era un ct sotto tutela (Walter Mandelli), disponeva di fior di campioni dal carattere scolpito nella roccia, Riva, Boninsegna, lo stesso Rivera. La sua Italia praticava un mordi e fuggi micidiale. Terzino fluidificante, e capitano, Giacinto Facchetti. Il destino del buon Ferruccio si consuma in Germania, nel 1974. Vi arrivò con uno squadrone formidabile: Zoff si era tuffato sulla copertina di «Newsweek», Brasile e Inghilterra erano stati mortificati in amichevole; e gli inglesi, addirittura a Wembley. Fuori subito, senza se e senza ma. Con Valcareggi, chiudono Mazzola, Rivera e Riva. la fine di un’epoca, più che di un ciclo. Si ricomincia da zero. Fulvio Bernardini al timone, Enzo Bearzot al suo fianco. Bernardini, per la precisione: il dottor Bernardini, è di gusti raffinati. Aveva forgiato il Bologna dello scudetto («Così si gioca solo in paradiso»), sdogana Antognoni, Bettega, Gentile, Graziani, Rocca. Bearzot appartiene ai quadri federali. Presto, diventerà il solo responsabile. Cuore granata, la panchina del Prato come referenza (sic), non c’è uno che scommetta su di lui. Lui, invece, scommette su Cabrini e Paolo Rossi. Stravincerà. Quarto in Argentina, primo in Spagna. Altro che difesa e contropiede. Gioco armonico e ormonico, con un libero, Gaetano Scirea, che funge spesso da centrocampista aggiunto, e ali come baron Causio e Bruno Conti: ali di poesia. Il resto è cronaca. Azeglio Vicini succede a Bearzot e incarna anch’egli i valori istituzionali, dalla Under alla Nazionale. Ha l’onore di giocarsi i Mondiali in casa e l’onere di arrivare imbattuto ma «solo» terzo. Sono le notti magiche di Totò Schillaci e Roberto Baggio. Da Vicini, il ct che battezzò Donadoni, a Sacchi, il maestro che l’ha formato, cambia tutto. Arrigo Sacchi da Fusignano, paranoia e intensità, pressing e fuorigioco. Scovato da Silvio Berlusconi, è al Milan da quattro stagioni. I giocatori non ne possono più, il grande capo nemmeno. Vicini ha fallito l’accesso agli Europei, Berlusconi seduce Antonio Matarrese, presidente della Figc. Un miliardo a stagione, Sacchi è il primo tecnico di un grande club a varcare il Vaticano azzurro. Ci regalerà il secondo posto di Pasadena, ai rigori e con i crampi. Senza battitore libero, senza centravanti vero. Alla sua maniera, dividendo il Paese. Se ne andrà una sera di dicembre del 1996, richiamato d’urgenza al Milan da Berlusconi, stufo di Tabarez («Chi è: un cantante di Sanremo?»). Tocca al calcio pane e salame di Cesarone Maldini, il cui figlio, Pa-Pa-Paolino, gli assicura un tacito consenso. Under, Nazionale: la solita trafila. Pessotto su Zidane e via andare. Metodi italianisti, come quelli di Dino Zoff, il ct che, da giocatore, aveva alzato la coppa del Bernabeu e che, per un pugno di secondi, non solleva l’Europa a Rotterdam. Gli sono fatali un guizzo di Wiltord e un golden gol di Trezeguet. Ha lanciato Totti, lascia dopo le accuse di «dilettantismo precoce» formulate dal solito, incontinente Berlusca. Gli subentra Giovanni Trapattoni, acqua santa e Moreno in corpo. Ha smarrito la magia, non riesce a fare gruppo. Fallisce Mondiali ed Europei. Franco Carraro convoca Marcello Lippi. Moggiano, giraudiano, juventino, arrogante, colluso e illuso fino a che, la notte del 9 luglio, non diventa il più bravo di tutti, per tutti. Roberto Beccantini