La Stampa 11/07/2006, pag.29 Gianluigi Ricuperati, 11 luglio 2006
L’anno terribile di Fritz Lang. La Stampa 11 luglio 2006. Nelle fasi di transizione i guai arrivano soprattutto per i torturatori e per gli artisti
L’anno terribile di Fritz Lang. La Stampa 11 luglio 2006. Nelle fasi di transizione i guai arrivano soprattutto per i torturatori e per gli artisti. Sono queste le due categorie di «idioti», nell’etimo greco che significa cittadino, che creano i problemi peggiori quando si passa da una dittatura alla democrazia, ma anche quando con cupezza crescente si abbandona la democrazia per scivolare in qualche genere di tirannide. Ma che succede invece quando gli artisti subiscono il fascino dei torturatori, intendendo il più ampio spettro di accezioni che questa frase può suscitare, diciamo da Borges muto di fronte ai carnefici argentini fino ai tanti esemplari di accondiscendenza italiana sotto le leggi razziali? In quei casi non si capisce più dove risieda il futuro di una civiltà, e se all’indomani della liberazione dall’incubo sia giusto perseguitare i torturatori o allentare gli artisti che hanno subito il fascino dei torturatori, o perseguitarli allo stesso modo, o voltare pagina e far finta di niente. A stimolare queste e altre domande è un libro, Treno di notte, uscito da poco in Italia ma scritto parecchi anni fa dallo sceneggiatore americano Howard A. Rodman. In originale suona come Destiny Express che curiosamente in italiano rimanda allo stesso titolo di uno dei migliori romanzi di Martin Amis, Night Train - che in verità è un’espressione coniata e premiata da moltissimi lamenti del Blues e del Jazz più ancestrale. Il gioco di Rodman è un romanzo che Thomas Pynchon ha applaudito forse con maggiore interesse per il tema trattato, visto che accenna a Lang anche ne L’Arcobaleno della Gravità, che per l’effettiva qualità letteraria. Anzi, come dice il clichè, «squisitamente letteraria», la quale volendo potrebbe anche essere messa in discussione - anche se quando sono in gioco idee e storie fondamentali, in fondo chi se ne importa della qualità letteraria (quanti futili passatempo racchiusi in quel squisitamente). Il gioco di Rodman è immaginare di essere Fritz Lang, il grande regista austriaco che con film come Metropolis ha inventato e nel contempo cambiato la storia del cinema, nel 1933, quando cominciava a intravedere la fine della sua permanenza gloriosa in Germania, e anche del suo matrimonio. Per capire meglio cosa significa essere stati Fritz Lang bisogna fissare l’ago su quel punto della mappa del tempo, il 13 marzo 1933 - il giorno in cui Lang incontra Joseph Goebbels, che gli esprime la propria ammirazione e gli propone un posto da dirigente nella nascente film commission nazista. Bisogna immaginare di non essere propriamente dei fan di un regime che diventa sempre più cupo. Ma di essere tentati di accettare lo stesso, perché le circostanze sono complesse e anche se quelli ti sembrano tutti dei pazzi pericolosi in fondo a te non hanno mai recato danno - e la tua vità è già arrivata intorno alla metà, espressione quantitativa che solo in italiano ha la curiosa prerogativa di esprimersi con le stesse lettere con cui si esprime la fine, il goal, il raggiungimento. E vedi tutti, piano piano, allontanarsi e partire per gli Stati Uniti ancora innocenti del decennio prebellico, specie gli intellettuali sodali e i membri della comunità espressiva con i quali hai discusso e immaginato nelle stagioni appena svoltate: registi come Max Ophuls e autori come Bertolt Brecht, insieme ad altri nomi della diaspora tedesca. E se sei Fritz Lang nel 1933 l’accento in meno che distingue metà da meta ha il nome di Thea Von Harbou, la donna incontrata quindici anni prima, una di quelle figure femminine che hanno idee meravigliose e rimangono attaccate al proprio uomo dopo essere entrate nella sua vita in modi spesso tragici e portatori di dolore rivelativo (si erano conosciuti mentre lui stava con un’altra che dopo averli sorpresi si è sparata un colpo in testa nella camera accanto alla loro - come in una variante romanzesca alla Marias). Ma Thea è stata anche una di quelle persone da Ventesimo Secolo, incredibilmente dotate e capaci di intervenire in modo fondante in un campo o nell’altro, nella letteratura, nello sport, nel teatro e nel cinema, e come dettaglio aggiuntivo attratte irresistibilmente da ideologie sbagliate, regolarmente percorse da una certa abiezione politica, personale, sociale ed economica. Ecco, Thea Von Harbou ne aveva una speciale e insieme molto comune, vista la collocazione temporale e storica: a lei il nazismo piaceva sul serio, ci credeva, aveva davvero la sensazione che Goebbels, Himmler e Hitler fossero nel giusto. Direi che se c’è una cosa che si può imparare da Treno di notte e in generale dallo studio ravvicinato dell’anno terribile dell’autore di M. Il mostro di Düsseldorf è proprio l’immersione a stretto contatto nella pelle di chi, usando un linguaggio da etica cattolica forse un po’ passè ma abbastanza efficace, sceglie un’opzione fondamentale maligna in senso assoluto, ma che a differenza dell’esempio biblico non sa di scegliere il male. Lo abbraccia anzi con fiducia, con un certo orgoglio e con quella cecità intransigente che a guardarlo da lontano non si sa se provochi disperazione o compassione. Provare a sentire ciò che si sente in casi estremi come questi, restituire al lettore la partitura emotiva già suonata, o sul punto di essere eseguita, sarebbe chiedere troppo a un libro che in fondo non tradisce ambizioni espressive altissime - ma forse Treno di notte fa qualcosa di altrettanto prezioso, perché è un libro per scrittori nel senso meno deteriore e poco abusato dell’espressione: fa venir voglia di tentare imprese che non gli riescono, ma di cui mette in circolo la fragranza di necessità, l’aura spericolata. («La letteratura deve avere ambizioni irraggiungibili», diceva Italo Calvino, o forse usava un altro aggettivo, meglio non verificarlo, meglio immaginarlo, visto che probabilmente si trattava di qualcosa in cui era contenuta la possibilità e insieme l’impossibilità di arrivarci, che è proprio lo stato di desiderio e dovere che suscita il romanzo di Rodman.) In ogni caso, giusto per fare chiarezza, ecco come sono andate le cose, quel giorno del 1933: Fritz Lang fa le valige senza dire niente a nessuno e scappa a Parigi per poi finire negli Stati Uniti. Thea dopo un paio d’anni chiede il divorzio. Intanto arriva l’invasione della Polonia e la catastrofe. Lang continua a girare film importanti e belli - solo un po’ meno importanti e belli di quelli del periodo tedesco. Poi la guerra finisce. Lui negli anni cinquanta diventa un’icona dei Cahiers du Cinema, con la benda all’occhio e tutto il resto. Lei segue il destino di molti collaborazionisti, artisti e torturatori che siano: isolamento, disperazione, fine. La riabilitazione è un incubo politico riservato a chi, conquistato dalla storia, riesce infine a conquistare la vecchiaia. Gianluigi Ricuperati