La Stampa 18/07/2006, pag.27 Masolino d’Amico, 18 luglio 2006
Ava Gardner la dea tragica. La Stampa 18 luglio 2006. Posso vantarmi di avere avuto, a suo tempo, ben due contatti ravvicinati con la donna più bella che sia esistita nella nostra epoca
Ava Gardner la dea tragica. La Stampa 18 luglio 2006. Posso vantarmi di avere avuto, a suo tempo, ben due contatti ravvicinati con la donna più bella che sia esistita nella nostra epoca. Al primo o forse al secondo Festival di Spoleto fui in una tavolata all’aperto con gente di cinema. Lei mi guardò con due incredibili occhi verdi e mi domandò quanti anni avevo. Io ne avevo diciassette, ma dissi diciotto perché, emozionato, mi impappinai col mio inglese. Mia madre mi umiliò correggendomi prontamente. Il secondo contatto avvenne due o tre anni dopo. Questa volta ero in un night, il «Club 84», vicino a via Veneto, anche lì con mia madre e per fare compagnia a Anna Magnani, che aveva la strana idea di portare a cena lì noi due per fare compagnia a lei e a suo figlio, il quale era un po’ più piccolo di me. La signora in questione, che se possibile era ancora più incredibilmente bella che a Spoleto (non proverò a descriverla, d’altro canto esistono le foto, esistono i film), si trovava nel locale e venne a omaggiare la Magnani, la quale mi esortò a farla ballare. Ancora più impacciato della volta precedente, mi trovai sulla pista dove per fortuna suonavano un lento. Non sapevo che dirle. Di nuovo fu lei a rompere il silenzio parlando di me. Mi disse: «Lei ha un buon odore». In effetti ero reduce da una palestra dove qualcuno aveva portato un flacone di Badedas, allora una novità, e ci eravamo tutti innaffiati di quella fragranza di pino. Non seppi cosa risponderle. Per fortuna dopo un po’ smisero di suonare, e la riaccompagnai al suo posto. In carne e ossa non la rividi mai più, cosa che, dopo aver letto tutte le 500 densissime pagine dell’eccellente, documentatissima biografia dedicatale dallo specialista Lee Server (St Martin’s Press, New York, e Bloomsbury, London), mi riesce difficile rimpiangere, per ragioni che verranno fuori tra poco. Sulla bellezza che mi tramortì, peraltro, il libro reca conferme clamorose. Ava Gardner non fu soltanto bellissima, fu bellissima da subito, e in un modo tale che non le consentì quasi di diventare nient’altro. Figlia piccola di fattori del North Carolina poi gestori di una pensione in una cittadina quando la madre dovette impugnare la situazione (crisi economica, cattiva salute del marito), era appena uscita dalla scuola quando raggiunse per una vacanza una sorella molto più grande ed emancipata che viveva a New York con un modesto fotografo di quartiere. Questo fotografo fece ad Ava un ritratto che espose nella vetrina della sua bottega. Il ritratto fu notato per caso da un talent scout, che rintracciò la modella, le fece un provino artigianale e lo mandò ai suoi padroni della Metro Goldwyn Meyer; la Metro convocò a Hollywood la ragazza e le fece un contratto pluriennale, proponendosi di scozzonarla. Ava non aveva mai pensato di recitare, anzi era e sarebbe rimasta convinta di non avere alcun talento in quella direzione. Era arrivata da poco, scortata dalla sorella, quando fu portata a vedere un set cinematografico. Il divo che stava girando era l’ex ragazzino prodigio Mickey Rooney, in quel momento la star più popolare della Metro. Fulminato, Mickey si mise subito a farle la corte. Ma Ava era seria e illibata, e gli resistette; cedette solo dopo un lungo assedio, e fu per andare davanti al giudice di pace. In quella occasione Mickey la presentò a sua madre, veterana del music-hall senza peli sulla lingua, che salutò la nuora dicendole: «Immagino che non sia ancora riuscito a infilarsi nelle tue mutande». Per impossessarsi della diciannovenne Ava, Mickey Rooney non aveva dovuto solo vincere le incertezze di lei, ma anche sfidare i capi della Metro, ferocemente contrari a un passo in contrasto con un’immagine di adolescente (Mickey era alto solo un metro e 52) che volevano continuare a sfruttare. Mickey la amò focosamente, iniziandola al sesso che praticava con entusiasmo e competenza, ma lo stesso il matrimonio durò poco - troppo giovani entrambi (lui maggiore di due anni), con lei che non sapeva come riempire le assenze né come perdonare le infedeltà di lui. Inoltre chiunque vedeva Ava le faceva immediatamente delle avance. Malgrado un’altra opposizione della Metro, che a questo punto non voleva un divorzio, la coppia ben presto si sciolse. Su Ava si gettò il miliardario e collezionista di star Howard Hughes, che la circuì con molta prepotenza, proponendole nozze e coprendola di regali, inaugurando una persecuzione durata poi molti anni, per lunghi periodi dei quali Hughes avrebbe fatto pedinare Ava e mettere microfoni-spia nelle sue abitazioni. Lei non cedette mai, e anzi una volta gli spaccò la testa tirandogli un oggetto contundente. Il fiore fu colto, invece, da un’altra celebrità, il clarinettista Artie Shaw, che a trentaquattro anni era già stato sposato quattro volte, una con Lana Turner. Shaw, a differenza di Rooney, era alto, belloccio e intellettuale, e ben presto fece sentire ad Ava tutto il peso della sua ignoranza. Fino allora Ava aveva letto per intero un solo libro, Via col vento, d’obbligo per tutti gli abitanti della North Carolina. Shaw le prescrisse liste di classici e le inculcò un senso di inferiorità che la poverina si abituò a combattere bevendo in dosi sempre più massicce. Ben presto Ava si allontanò anche da Shaw, ma a quel punto le capitò, senza averla cercata, l’occasione per diventare una stella in proprio. Dopo averle fatto passare una gavetta di particine insulse, la Metro la prestò a una produzione indipendente, un film di piccolo budget con un altro esordiente, Burt Lancaster: I gangster, regia di Robert Siodmak. Era il 1946, e la sua apparizione come «femme fatale» la consacrò in un ruolo che sostanzialmente non le sarebbe più stato chiesto che di ripetere. Arrivò anche la più intensa e anche la più lunga delle sue numerosissime storie d’amore, quella con Frank Sinatra, altra vedette, e come lei passionale, intransigente, eccessivo - sposato nel 1949, lasciato dopo due anni di liti furibonde e clamorose riunioni, ma poi punto di riferimento per tutto il resto della sua vita. Dopo Sinatra l’elenco degli uomini temporanei di Ava diventa interminabile. Dei suoi partner nei film i soli con cui non andò a letto sembra siano stati James Mason e Stewart Granger, entrambi con mogli molto presenti (ma neanche la gelosissima Shelley Winters riuscì a fermare un irretito Anthony Franciosa). Tra i non-partner i più noti sono David Niven, J. F. Kennedy, Kirk Douglas, Vinicius de Moraes, Robert Taylor, Robert Mitchum, i toreri Mario Cabrè e Luis Miguel Dominguìn, e il nostro Walter Chiari, «the Italian Danny Kaye», per il quale il biografo ha parole di simpatia: riusciva a metterla di buon umore, e le era sinceramente affezionato. Ava tuttavia, pur trincando come una spugna e fumando sessanta sigarette al giorno, disapprovava la sua dipendenza dalla cocaina, e alla lunga lo scaricò. Anche con lui ci furono peraltro dei ritorni di fiamma. Una volta, annoiandosi a Melbourne, dove stava tediosamente girando L’ultima spiaggia, gli chiese di punto in bianco di raggiungerla. Walter si precipitò, ma nei due o tre giorni che gli ci vollero per organizzarsi Ava aveva cambiato idea, e quando lo vide arrivare lo trattò freddamente. Per usare in qualche modo il viaggio Walter riuscì a mettere su una serata (l’impresario lo pagò con un assegno a vuoto) e prima di ripartire riversò la sua amarezza ai giornalisti. Passarono un paio di settimane, Ava si sentì sola di nuovo, e questa volta telefonò a Sinatra - il quale venne con la stessa prontezza di Walter, ma con una band, e diede concerti che gli australiani accolsero come la manna dal cielo. Perché ho detto sopra di essere contento di non avere più rivisto questa donna divina? Perché la storia del suo tramonto è straziante. A un certo punto, Ava lasciò Hollywood per stabilirsi in Spagna, dove si sentiva veramente libera e non condizionata, riservandosi di lavorare solo occasionalmente; ma la sua passione per la vita notturna e il flamenco si risolsero in orge avvinazzate che alla lunga la fecero mettere al bando dai locali rispettabili, come il «Ritz» di Madrid. Personalmente non cessò di essere simpatica, e gli intervistati a decine rendono omaggio alla sua generosità e cordialità, ma a partire da una certa data puntualizzano che da ubriaca era imprevedibile e insopportabile - e si ubriacava quasi tutti i giorni. Agli uomini non rinunciava, ma continuava a scegliersi quelli sbagliati. In Abruzzo, sul set della Bibbia di Huston, sedusse facilmente il suo partner George C. Scott. Questi però era un alcolizzato che stava tentando di svezzarsi, e accanto ad Ava ripiombò in un maelstrom bacchico con conseguenze spaventose. Da sobrio Scott si dominava, ossia offriva al mondo un aspetto mite e mansueto; da sbronzo era stupido, violento e cattivo, e in più di una occasione la picchiò crudelmente. Da ultimo la diva lasciò la Spagna e gli eccessi per rifugiarsi in un appartamento londinese, l’unica città dove passanti e paparazzi la ignorassero. Qui invecchiò in solitudine con i suoi cani - dei corgi come quelli della Regina, ma uno alla volta - ascoltando insaziabilmente dischi di Frank Sinatra, e ogni tanto scambiando languide telefonate intercontinentali con «The Voice», che di nascosto dalla sua quarta moglie era sempre pronto a mandarle aerei privati o a offrirle ospitalità nelle sue molte dimore. Masolino d’Amico