Giovanni De Luna, La Stampa 12/7/2006, pagina 25., 12 luglio 2006
Carnera, fratellone d’Italia La Stampa, giovedì 12 luglio Primo Carnera, metri 2,04 di altezza, 122 chili di peso, italiano di Sequals (Friuli), il 29 giugno 1933 batte per ko il detentore del titolo mondiale dei pesi massimi, Jack Sharkey
Carnera, fratellone d’Italia La Stampa, giovedì 12 luglio Primo Carnera, metri 2,04 di altezza, 122 chili di peso, italiano di Sequals (Friuli), il 29 giugno 1933 batte per ko il detentore del titolo mondiale dei pesi massimi, Jack Sharkey. Esattamente un anno dopo, nel giugno 1934, perde il titolo contro Max Baer. Da quel momento comincia un rapido declino, culminato nel ritiro dal ring (1937). Una carriera breve (iniziata nel 1928, 103 incontri, 88 vittorie e 15 sconfitte), affollata di incontri truccati, sospetti, giudizi impietosi («fenomeno da baraccone»), troppo insistiti per fare di Carnera un «vero» campione. Il suo primo manager Léon Sée, in un libro del 1934, confessò che dei 49 incontri disputati dal pugile tra il 1928 e il 1931, trenta erano stati combinati. Sfruttato da impresari cinici e avidi, prima osannato poi lasciato solo con i suoi affanni e i suoi debiti, costretto, da ultimo, a penose esibizioni di catch (la nostra «lotta libera») sui palcoscenici dei teatri di tutto il mondo (combatté fino al 1962 prima di spegnersi nel 1967, a 61 anni). La sua vita fornì lo spunto per un capolavoro del cinema hollywoodiano, Il colosso d’argilla, di Mark Robson (1956). E tuttavia «nella storia non è reale solo ciò che è vero (le qualità di Carnera), bensì anche ciò che è creduto vero (ancora le qualità di Carnera)». Così scrive Daniele Marchesini nel suo libro appena uscito dal Mulino (Carnera, pp. 259, e22) che si presenta come una sorta di circumnavigazione, appassionata e appassionante, dei contorni accidentati del «mito», alla ricerca delle radici di una popolarità destinata a sopravvivere nel tempo, quasi fino ai giorni nostri. Il percorso si sviluppa attraverso una serie di cerchi concentrici, il primo dei quali - decisivo per capire la dimensione mitica assunta dal pugile - è segnato dall’ansia di legittimazione e di rivincita che, negli anni 30, animava la comunità italoamericana, da sempre schiacciata sotto i macigni degli stereotipi (o mafiosi o mandolinisti): per Little Italy, Carnera fu il simbolo di un riscatto a lungo e invano inseguito nella fatica e nel lavoro (lui stesso era stato costretto dalla miseria a emigrare in Francia, nel 1920, a soli 14 anni). Dalla fame alla fama, era il sogno di tutti; quando Carnera tornò una prima volta in Italia, nel 1930, al porto di Genova fu necessario un camion per caricare la grande quantità di valigie e di bauli ricolmi di ogni ben di Dio che si era portato dagli Stati Uniti, compresi un grammofono e una radio monumentale. Ma non era solo un questione di ricchezza e di addio alla povertà; una canzone italoamericana del 1930 lo presentava nei panni di un eroe italiano, al quale tutte le nostre culture regionali, nei loro rispettivi dialetti, presenti a Little Italy, rendevano omaggio, in una sorta di «nazionalizzazione» anomala (napoletani, siciliani, pugliesi ecc. si riconoscevano compiutamente nell’italianità di Primo), che avveniva non in patria, ma all’estero, sotto la pressione dei pregiudizi degli «altri». Carnera era anche e soprattutto un simbolo guerriero che poteva essere agevolmente utilizzato in uno spirito di rivalsa nei confronti delle altre etnie confluite nel melting pot: un idolo delle sceneggiate di Little Italy, Giuseppe De Laurentis, in una canzone, ’O pugilatore italiano, arrivava a contraporre Carnera («tene ’a faccia ’e ’na creatura, è ’o terrore dei fightatori») all’eroe americano per eccellenza di quei tempi, Charles Lindbergh. Da Mulberry Street, il mito rimbalzò in Italia e trovò nel fascismo un regime particolarmente interessato a utilizzarlo come un efficace strumento di propaganda. il secondo dei cerchi in cui si articola la costruzione del mito. Carnera fu una gloria nazionale da esibire come prova dei «nuovi italiani» forgiati da Mussolini, in un’autorappresentazione zeppa di virtù virili (forza, combattività, resistenza al dolore, disciplina), quasi a offrirne il corpo «come cellula di eccellenza della unità biologica costituita dalla nazione». Fu, per il fascismo, l’occasione di ostentare l’orgoglio di una stirpe che stava per chiamarsi razza. La sfida con Max Baer (che indossava pantaloncini neri con la stella di David gialla), fu presentata in chiave marcatamente antisemita, così come quella con Joe Louis, scelto come simbolo di una disprezzata «negritudine». Carnera perse entrambi gli incontri. E il fascismo diramò prontamente una velina ai giornali: «Non pubblicare foto di Carnera a terra». Come per molti altri degli elementi confluiti nell’autorappresentazione del fascismo, anche la forza di Carnera si rivelò ai limiti del bluff. E furono gli stessi fascisti, più tardi, nel crepuscolo di Salò, nel loro furore vendicativo verso casa Savoia, a sollevare dubbi anche sulla sua dimensione virile, accennando a ambigui trascorsi con Umberto di Savoia (in realtà, a quello che risultava a Gianni Brera che ne scrisse anni dopo, ci fu effettivamente un incontro a villa Roseberry, nell’ottobre del 1933: «Umberto lo aveva ricevuto in costume da bagno e lo aveva pregato di fare con lui una nuotata in piscina. Poi avevano trascorso insieme, da soli, il pomeriggio»). Ma il mito sopravvisse anche alla caduta del fascismo, così da lasciare emergere nel libro di Marchesini ancora un terzo cerchio, il più largo e il più significativo: quello che vede Carnera entrare nell’Olimpo costruito da una rappresentazione mediatica dello sport che ne farà prima un divertimento di massa, poi - ed è storia di questi giorni - un elemento costitutivo dell’identità nazionale. Non è più questione di italoamericani e di fascismo: Carnera, insieme con Coppi, Bartali, Nuvolari, Meazza, segna l’esordio di un fenomeno divistico destinato a rotolare come una valanga sempre più gigantesca fino a oggi. All’inizio, tra Ottocento e Novecento, quell’Olimpo era popolato di maratoneti (Dorando Petri), lottatori (Giovanni Raicevich), ciclisti (Luigi Ganna, Giovanni Gerbi): «risulta normale», scrive Marchesini, «che gli sport di resistenza, fatica e forza siano percepiti come il naturale prolungamento della sudata quotidianità del lavoro, molto vicini perciò alla sensibilità delle persone comuni». Carnera è l’anello di congiunzione tra questo universo arcaico e quello successivo, segnato dalla tecnologia, dalla tecnica, dallo stile, popolato da eroi come Balbo, il trasvolatore del 1933, i grandi dell’automobilismo, Nuvolari e Varzi, il calcio mondiale del 1934 e 1938, l’irresistibile Juventus dei cinque scudetti consecutivi. Il 22 ottobre 1933 piazza di Siena, a Roma, fu riempita da 70 mila spettatori per l’incontro tra Carnera e il basco Paulino Uzcudun; fu il segnale che lo sport è di massa era ormai entrato nel Dna del Novecento e della sua modernità. Se ne accorse, con amara mestizia, Benedetto Croce che, nel 1932, scriveva: «Dalle biciclette alle automobili, dai canotti ai yachts alle aeronavi, dalla boxe e dal football allo ski, tutti in vario modo cospirano a dare troppo larga parte, nel costume e nell’interessamento, al rigoglio e alla destrezza corporale, scapitandone al confronto le parti dell’intelligenza e del sentimento». Erano gli anni Trenta, gli anni della «grande trasformazione» che ridisegnava un mondo intero e alterava la stessa struttura genetica dello sport. Da allora in poi la sua dimensione agonistica sarebbe stata inconcepibile senza la rappresentazione mediatica e il sistema dei mezzi di informazione di massa cominciava a preparare le sterminate platee televisive degli ultimi eventi calcistici (2 miliardi di contatti per la partita inaugurale dei Mondiali appena conclusi!). Carnera aderì in tutti i sensi a questa nuova realtà che azzerava quasi ogni distinzione tra spettacolo e sport. Sceso malinconicamente dal ring, trascinò il suo corpaccione prima sul set cinematografo (girò nove film tra il 1939 e il 1943), poi sui palcoscenici dove allora si svolgevano gli incontri di catch, uno «sport», in cui «il pubblico si accorda spontaneamente alla natura spettacolare del combattimento / si disinteressa altamente di sapere se l’incontro è o non è truccato / dove non c’è problema di verità come non c’è a teatro». Molto teatro e poca verità: tutto cominciò allora, con Primo Carnera. Giovanni De Luna