Domenico Quirico, La Stampa 12/7/2006, pagina 12, 12 luglio 2006
Hussein Aidid, da marine a signore della guerra in Somalia. La Stampa, mercoledì 12 luglio Quando gli agenti della Cia lo hanno incontrato, molto sommariamente, in incognito, in un albergo di Addis Abeba, gli hanno chiesto brutalmente: «Si sente più somalo o americano?»
Hussein Aidid, da marine a signore della guerra in Somalia. La Stampa, mercoledì 12 luglio Quando gli agenti della Cia lo hanno incontrato, molto sommariamente, in incognito, in un albergo di Addis Abeba, gli hanno chiesto brutalmente: «Si sente più somalo o americano?». Lui, elegante, dallo sguardo vivacissimo e un po’ timido, ha calato un breve silenzio e poi ha risposto: «Io sono un marine. Marine per un giorno, marine per sempre». Il caporale Hussein Aidid oggi avrebbe davvero bisogno degli altri «ragazzi». E forse non basterebbero nemmeno loro. Non ci sarà nessun nuovo sbarco, nessun «arrivano i nostri». Hussein è solo e la battaglia che sta combattendo nelle vie di Mogadiscio è davvero aspra, senza linee di ritirata. Si può solo vincere perché il nemico, le milizie fondamentaliste, i talebani del Corno d’Africa, è armato di un fanatismo freddo e depredatore. In due giorni i morti sono già centinaia, nel sud della capitale si lavora di cannone e di mitraglia. Gli islamici ormai padroni della capitale esigono la consegna di tutte le armi. E’ rimasto, con il suo pugno di guerrieri, solo lui, il signore della guerra americano. Hanno già cancellato la Somalia di cui il suo padre, il terribile generale Aidid, è stato un simbolo: quella dei signori della guerra, dei regni tribali grandi come un pezzo di città o una regione, anarchica feroce fitta di intrighi e di congiure, dimenticata dal mondo nel suo indecifrabile caos. La stanno sostituendo con l’ordine implacabile della sharia. Anche Hussein, forse più per destino familiare che per volontà, è stato inghiottito in questo gorgo, risucchiato da un’identità che aveva cercato di lasciarsi dietro. E’ diventato un signore della guerra, ha combattuto affannosamente per il potere, si è immerso nelle sudicie catacombe del tribalismo. Finchè un giorno l’altra metà della sua Storia, quella con il passaporto americano, la laurea di ingegnere, la vita nei sobborghi di Los Angeles, si è fatta avanti. Chiedendogli di combattere contro il Male islamico per conto di quegli americani che suo padre, nel 1993, ai tempi della operazione «Restore Hope» aveva trascinato, fatti a pezzi, nella polvere della capitale. Aveva venti anni quando provò a sfuggire al proprio destino venendo in Italia per studiare. Fu suo fratello Bechir che lo tentò: «Perché non vai invece in California?». Sei mesi di corsi accelerati di inglese e poi fu Covina, periferia di Los Angeles. Dove si iscrisse alla facoltà di ingegneria. Per pagarsi i corsi, come fanno tanti, si arruolò nei marines che finanziano gli studi in cambio di un certo numero di anni di servizio. Il somalo che amava l’America divenne caporale del 14° reggimento di artiglieria con base a Pico Rivera. Uno dei 5000 marines musulmani che praticano la loro fede a casa, e poi partecipano alle cerimonie cattoliche del reggimento. Perché quel che conta è la divisa e non come preghi. Fu con la cittadinanza americana e la foto di una bella ragazza somala che aveva appena sposato in tasca che il caporale partì per la guerra del Golfo. Aveva due medaglie sulla giubba quando il 12 dicembre 1992 due ufficiali si presentarono all’università di California dove aveva ripreso gli studi. Avevano bisogno di lui: stava per scattare la guerra «buona» per salvare il suo Paese straziato e lui era l’unico marine che parlava somalo. Ma a Washington sapevano che era uno dei 14 figli del bisbetico signore della guerra che aveva cacciato il dittatore Barre; con cui bisognava, presto o tardi, fare i conti. Lo misero allo Stato maggiore, per cercare di chiarire agli scettici generali l’inestricabile guazzabuglio delle cabile, delle tribù, dei clan. Il nemico del padre, Ali Mahdi, protestò, chiese di richiamarlo. Ma la campagna durò appena tre settimane. Quando il generale Aidid uccise in una imboscata 18 rangers e Washington mise su di lui una taglia di 25 mila dollari, Hussein chiese un permesso di tre mesi «per «viaggiare». Tornò a Mogadiscio con la moglie e il figlio. Qualcuno dice per negoziare una pace tra Washington e il generale. Ma il destino correva svelto. Il 25 luglio 1996 il padre fu ferito a morte in un’imboscata dei suoi nemici. L’ex caporale, a 33 anni, fu acclamato allo stadio di Mogadiscio nuovo capo del clan degli Habr Gadir. Scoprì che se la vita era dura nei sobborghi di Los Angeles ma ancora di più in Somalia dove l’arte della guerra ha regole diverse e più spietate. Con in mano il bastone del padre, nel Palazzo, la villa Somalia dei governatori italiani, il giovane marine ha cercato di imparare il mestiere di warlord. Ma in questi anni ha perso terre e potere, il suo dominio si è raggrinzito a una piccola parte della capitale. Fino al giorno in cui gli americani si sono ricordati che a Mogadiscio avevano lasciato un marine. Domenico Quirico