MAssimo Mucchetti, Corriereconomia 10/7/2006, pagina 5, 10 luglio 2006
Capaldo: superbond per lo sviluppo. Corriereconomia, lunedì 10 luglio Professor Capaldo, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che, come lui stesso racconta, fu suo allievo alla Sapienza, fa della Borsa l’asse di una nuova finanza per lo sviluppo di tipo anglosassone in un’economia privatizzata e liberata dai monopoli
Capaldo: superbond per lo sviluppo. Corriereconomia, lunedì 10 luglio Professor Capaldo, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che, come lui stesso racconta, fu suo allievo alla Sapienza, fa della Borsa l’asse di una nuova finanza per lo sviluppo di tipo anglosassone in un’economia privatizzata e liberata dai monopoli. Può funzionare? "C’è molto di giusto nelle Considerazioni finali di Draghi, ma per parlare di nuova finanza serve una premessa. La finanza è un Giano bifronte: infrastruttura essenziale del sistema delle imprese e impresa essa stessa. Negli ultimi anni si è enfatizzata questa sua seconda natura nella convinzione che la Mano Invisibile del Mercato avrebbe armonizzato al meglio lo sviluppo delle imprese con l’economicità delle banche. Questo non sta accadendo. La Mano Invisibile si conferma una volta di più una figura retorica". E allora? "Allora niente da dire se la finanza, e in particolare la banca-impresa, eleva a suo totem il Roe, il return on equity. Molto da ridire se consideriamo la banca come infrastruttura". Ma lei, tra il 1987 e il 1995, da presidente della Banca di Roma, al conto economico non badava? "Ci badavo, ma la verità è che in questa materia bisogna evitare tutte le forme di demagogie e in un certo senso quella del Roe lo è. Si può ragionare sul breve periodo, perché maturano le stock option e si ha una compagine azionaria con quell’interesse. Oppure nel lungo, perché si è nelle condizioni di poterlo fare. Quando mi sono occupato di queste cose mi sono dato una prospettiva di medio e lungo termine. Oggi per tante ragioni questo è più difficile ma non bisogna lasciarsi ossessionare dalle trimestrali". I banchieri dicono di aver salvato le grandi imprese, Fiat in testa. "Le banche hanno salvato le imprese e, com’era loro dovere, i loro crediti. Questa circostanza consiglia di non dimenticare la naturale ambiguità della banca azionista: deve sviluppare l’impresa di cui è socia o difendere anzitutto i crediti? Secondo me, bisogna riconsiderare a fondo l’attività ordinaria del sistema bancario". Perché? Non va bene? "Si fa molto, ma si potrebbe fare di più. La durata media del debito di una normale impresa raramente supera i tre anni mentre il fabbisogno finanziario è stabile o crescente. Ciò vuol dire che ogni anno l’impresa deve rinegoziare almeno un terzo dell’esposizione. Che cosa propongono le banche per stabilizzare a un costo appropriato la finanza delle imprese che non hanno accesso ai mercati finanziari, e cioè quasi tutte? Il problema non si risolve con la diffusione dei derivati. A questo proposito credo che tra imprese, banche e associazioni si debba aprire un dialogo fecondo sui caratteri del fabbisogno e la struttura di finanziamento". La finanza preferisce la speculazione sulle infrastrutture, come dimostra la corsa alle autostrade e all’energia, piuttosto che sostenere le attività esposte alla concorrenza. "Non c’è stata una preferenza dolosa, ma, anche per come sono state fatte le privatizzazioni, si è creata una grande opportunità per l’industria finanziaria a danno del sistema economico". Uno dei suoi ultimi atti da presidente della Banca di Roma fu l’offerta di rilevare a fermo la quota Iri della Stet, come allora si chiamava Telecom Italia. Ma proponeva pochi soldi: da industriale della finanza ... "Lei mette a dura prova la mia memoria. Ho qualche vago ricordo. Effettivamente parlai con Mediobanca di questa mia idea ed un’offerta all’Iri fu fatta ma per un importo inferiore a quello che io avevo in mente. Sa, Cuccia e Maranghi erano molto...oculati. Mi consenta di dire che di quelle persone più che mai oggi si sente la mancanza". Un peccato? "Credo che se le banche, l’Iri e il governo avessero avuto più coraggio la storia delle telecomunicazioni italiane sarebbe stata diversa e oggi Telecom avrebbe un’altra fisionomia". Si sono privatizzati monopoli o quasi monopoli con margini tali da consentire all’acquirente di comprarli investendo capitali propri modesti nella certezza di ripagare le banche con la rendita di posizione. "Il capitale di rischio serve nella misura in cui il rischio esiste: se il rischio è basso o inesistente, meglio ricorrere al debito. Nelle attività dove si pianificano con ragionevole attendibilità costi e ricavi, l’equilibrio è in re ipsa. Se guardo agli anni ’90, mi viene da pensare che questa circostanza non è stata sufficientemente considerata nella privatizzazione di molte utility. Senza rendersene conto, sono stati trasferiti ai privati consistenti profitti non giustificati da una correlativa assunzione di rischi". Ma se il concessionario di un pubblico servizio non guadagna perché dovrebbe investire? "Ma è proprio qui il punto. Il profitto remunera il rischio. Se il rischio praticamente non c’è, perché ci deve essere profitto? Questo è un punto fondamentale nella scelta dei meccanismi di finanziamento delle infrastrutture: gli elettrodotti, i metanodotti, gli acquedotti, le antenne tv, la rete di accesso e trasporto delle telecomunicazioni, la rete ferroviaria. Se l’Italia vuole infrastrutture moderne, volano dell’economia, non può caricarle di costi aggiuntivi. Ne può finanziare lo sviluppo con un larghissimo ricorso al debito e con un modesto capitale di rischio a sua volta costituito da vari tipi di azioni. Le infrastrutture vanno estratte dal circuito della finanza di Borsa, che ne ha già attratte molte e altre ne sta per attrarre, e vanno invece affidate a un soggetto non quotato". Nell’elenco mette le rete fissa, che Telecom non vuole cedere ma che, se venisse comprata, potrebbe far pensare a un aiuto a un soggetto indebitato. "In linea di principio ci potrebbe stare anche la rete telefonica. Io però non ho elementi per entrare nel merito della questione che lei pone. Posso solo dirle che debbono essere evitate tutte le forme di esproprio e tutte le forme di regalo. Questo soggetto dovrebbe avere piena consapevolezza delle sue responsabilità verso un sistema economico che ha bisogno di più concorrenza, dov’è possibile, e di una più forte regolazione nei monopoli naturali". Come dovrebbe essere il soggetto non quotato che lei propone? "Una pura holding che detenga il controllo delle diverse reti assicurando una governance professionale, trasparente e stabile, dunque svincolata dal sistema dello spoil system". Chi avrebbe la maggioranza? "Lo Stato, magari per mezzo della Cassa depositi e prestiti; ma con una forte presenza di investitori istituzionali, grandi banche e assicurazioni. Si eviterebbero così scalate ostili a infrastrutture che la politica ritiene strategiche, ma si avrebbe anche l’occhio del privato contro le inefficienze". In che modo? "Con una vigile presenza nel consiglio della holding. Ma poi, soprattutto, con il sistema di finanziamento. La holding, infatti, opererebbe con un capitale sociale basso e acquisirebbe il grosso dei suoi mezzi finanziari, in ragione, per dire, di 1 a 20-25, emettendo obbligazioni che, data la modestia del rischio sottostante, pagherebbero un tasso d’interesse contenuto, ad esempio un punto più dell’inflazione e sarebbero parzialmente garantite...". Da chi? "Non dal Tesoro, ma dal sistema assicurativo internazionale che dovrebbe a sua volta contare su un quadro regolatorio e tariffario certo. Questi titoli renderebbero un po’più dei titoli di Stato, la loro remunerazione potrebbe essere agganciata a vari parametri (inflazione, crescita del Pil, andamento del traffico) e sarebbero assai interessanti per risparmiatori e investitori istituzionali...". Superbond per lo sviluppo. "Se vogliamo... Essendo perfettamente negoziabili, sarebbero monitorati dal-le agenzie di rating e avrebbero una quotazione che rifletterebbe, comunque, l’opinione del mercato finanziario sulla qualità della gestione". Diranno che Capaldo, consulente dell’Iri negli anni Ottanta per la privatizzazione dell’Alfa Romeo, sogna la riedizione... "Non sogno proprio niente. Ancora una volta non facciamo questioni di parole ma guardiamo in faccia la realtà. Se vogliamo dotare il nostro Paese di un moderno sistema di infrastrutture dobbiamo inventare circuiti finanziari diversi da quelli propri delle normali imprese. Circuiti che sappiano tener conto da una parte del basso rischio degli investimenti in infrastrutture e dall’altro dell’esistenza di cospicue quantità di risparmi che aspettano proposte di impiego a lungo termine con rischio contenuto e remunerazione ragionevole". Vengono in mente le obbligazioni Iri di Beneduce negli anni ’30 e quelle successive di Mediobanca per l’Enel. "Assonanze esistono, ma dov’è il problema? Allora le autostrade sono state fatte. Oggi mi pare che siamo al palo da 15-20 anni. E poi non è sul Corriere Economia che ho letto delle Public Authority americane che non sono quotate, posseggono le infrastrutture, le danno in gestione ai privati, tengono basse le tariffe e fanno gli investimenti? Anche queste sono figlie degli anni ’30. Su questo, insisto, bisogna essere chiari. In un Paese come il nostro che ha baldanzosamente dichiarato una guerra senza quartiere a tutte le rendite -le piccole e le grandi, le vere e le presunte – sarebbe strano che si consentisse il formarsi di gigantesche rendite parassitarie a causa di un inappropriato meccanismo di finanziamento delle infrastrutture. E og- gi non può non constatarsi che il meccanismo è inappropriato". Questa holding consentirebbe alla Pubblica amministrazione di cedere patrimonio, riducendo il debito pubblico, ma senza privatizzare del tutto. "E le parrebbe poco?". Massimo Mucchetti