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 2006  luglio 08 Sabato calendario

Lo Strega modello Veltroni La Stampa, sabato 8 luglio Se un premio letterario può essere indicato come termometro della politica, lo Strega assegnato due sere fa ci dice a chiare lettere due cose: 1) che Walter Veltroni è avviato a fare il Premier nel giro di pochi anni, e 2) che nemmeno la respirazione bocca a bocca del più autorevole leninismo dei salotti letterari può tenere in vita una sinistra svanita

Lo Strega modello Veltroni La Stampa, sabato 8 luglio Se un premio letterario può essere indicato come termometro della politica, lo Strega assegnato due sere fa ci dice a chiare lettere due cose: 1) che Walter Veltroni è avviato a fare il Premier nel giro di pochi anni, e 2) che nemmeno la respirazione bocca a bocca del più autorevole leninismo dei salotti letterari può tenere in vita una sinistra svanita. Passo indietro. Avrete certo letto, ma val sempre la pena di ri-raccontare. Il premio Strega ha sessant’anni, prende il nome da un liquore molto popolare prima del boom economico italiano ormai quasi scomparso dall’uso comune, e, un po’ come il liquore, il premio stesso è in bilico da anni tra tradizione e dispersione. E’ un premio super romano, ma con passione nazionale; è un premio elegante ma per vincere il quale si lotta come gladiatori nel fango; è il premio più prestigioso ma anche il più sparlato del paese; è infine il premio simbolo della natura elitaria, sinistrorsa e conventicolare della intellighentia italiana (si dice), ma non c’è autore o casa editrice, di destra centro o sinistra, che non darebbe l’anima per averlo. Lo Strega è insomma, come ben si capisce da tutta questa turbolenza che lo circonda, il premio dei premi, il nostro Oscar della letteratura, che, in un Paese come l’Italia povero di istituzioni e ricco di instabilità, è divenuto, anno dopo anno, un piccolo ed elegante specchio in cui si ammira lo stato delle cose nella nostra società. Nonostante che i voti siano tutt’altro che segreti, e nonostante che sui 400 votanti venga messo in atto un pressing che si avvicina al mobbing, alla fine dallo Strega esce infatti sempre, comunque, un risultato coerente con il mood, gli umori politici e sociali, dell’anno. Ed è stata così, come sempre casualmente perfetta, anche la finale di quest’anno, in cui, all’ombra del ritorno dell’Ulivo al governo, si sono confrontati due libri che hanno messo a confronto la sinistra con sé stessa. Esattamente come nelle piazze e in Parlamento. Dato curioso e significativo: del Berlusconismo che negli anni scorso ha roso, corroso e dominato la mente degli intellettuali italiani pare non ci sia già più traccia. La domanda rovello è definitivamente un’altra: quale sinistra, allora? Le due che si sono scontrate al Ninfeo di Villa Giulia non sono del tutto incompatibili, ma sono certamente inconciliabili. La prima è stata rappresentata da una donna diafana al punto della trasparenza, come del resto il mondo che evoca nel suo libro: un secolo di educazione sentimentale e di desiderio comunista. Il mondo delle grandi scelte, in cui l’Io va sempre annegato - anche quando preme sottopelle con le sue voglie – dentro il grande scorrere degli eventi, perché marxianamente al particolare si arriva sempre dal generale e l’individuo è sempre al servizio delle «forze del cambiamento». Siano esse la Storia, o più modestamente, il partito. Dall’altra c’era un libro affondato nell’Io, quello di un uomo nel pieno del suo vigore, che disdegna invece l’energia per cercare in una paziente disamina di emozioni le proprie motivazioni, disamina che rende distaccate e glaciali persino le scene più pruriginose, che solo una visione molto ristretta della moralità può far vedere come offensive, e in questo forse l’Osservatore Romano, che le ha criticate, ha peccato di quel realismo che l’autore non ha, laddove l’Io particolare della Rossanda è raziocinio, ma appassionato, l’Io di Veronesi è profondo, appannato dal distacco. Una donna anziana e un uomo giovane. La prima fragile, ma con lo sguardo verso il fuori; il secondo forte, ma con lo sguardo rivolto al dentro. La prima simbolo anche fisico di un comunismo marxista coltivato in una forma di isolamento, in un rapporto di contesa con il mondo, in un rifiuto cocciuto di cogliere la realtà; il secondo parte di una generazione invece sommersa dentro la realtà, profondamente fiduciosa nel cambiamento. Due collocazioni nel mondo a cui si possono ben riportare molte delle lacerazioni che attraversano la sinistra oggi al governo. Era dunque di un certo interesse capire, due notti fa, quale delle due avrebbe vinto. E, soprattutto, con quali voti. In Rossanda si è riconosciuta la cittadella della intellighentia tradizionale, la Einaudi, gli uomini e le donne della generazione dell’autrice, con tutto il rinforzo del peso della casa madre Mondadori ormai lontana (?) da ogni sospetto di Berlusconismo. Veronesi invece nuotava quasi senza sforzo apparente dentro quel mondo in perenne movimento della cultura romana che passa senza battito di ciglio dall’arte, al cinema, alla scrittura, ai nuovi media – laddove Rossanda stava ieraticamente seduta, Veronesi con una piccola telecamera a mano, documentava sé stesso con gli altri. Raffronti impari e per certi versi impossibili, su cui il risultato finale ha imposto la chiarezza del principio di realtà. Il mondo di Rossanda è per certi versi un sogno, per certi versi una sconfitta, ed è, sicuramente, finito. Nessun potere commerciale o tradizione intellettuale può riportarlo in vita. Il vincitore Veronesi è invece parte di una grande società senza barriere, in cui il meccanismo degli umori, delle idee e del fare politico vanno verso una fusione naturale. E’ il mondo di Veltroni, è stato scritto. Nel senso che proprio a Roma e proprio attraverso il suo sindaco questa trasformazione della società trova oggi la sua forma più avanzata di un oleato meccanismo di consenso politico. Lucia Annunziata