Stefano Malatesta, la Repubblica 6/7/2006, pagina 50., 6 luglio 2006
Giorgio Montefoschi stregato dal nulla. la Repubblica, giovedì 6 luglio Il caso di Giorgio Montefoschi è uno dei più singolari della produzione romanzesca di questi ultimi anni e già questo aggettivo, romanzesco, applicato ai suoi libri, sembra mal posto a chi li conosce bene perché di romanzesco non c´è proprio nulla
Giorgio Montefoschi stregato dal nulla. la Repubblica, giovedì 6 luglio Il caso di Giorgio Montefoschi è uno dei più singolari della produzione romanzesca di questi ultimi anni e già questo aggettivo, romanzesco, applicato ai suoi libri, sembra mal posto a chi li conosce bene perché di romanzesco non c´è proprio nulla. Dunque il mio amico Montefoschi - considero legittima la dichiarazione, conoscendolo da quando avevo vent´anni - ha vinto un premio Strega, i suoi libri sono stati sempre recensiti con interesse, tra gli altri, da un critico della levatura di Pietro Citati e tutti sono d´accordo nel ritenere che in Italia ci sono pochi scrittori così scrittori, così solidali come lui al mito della letteratura e del romanzo, anche se il romanzo non occupa più quella posizione centrale nella nostra cultura che aveva una volta... Da quando era poco più che ragazzo, Giorgetto ogni mattina si alza, fa un´abbondante colazione in una magnifica villa circondata dai pini, dà un´occhiata rapida ai giornali e poi si mette al tavolo di lavoro: un bel tavolo di abete come si trovano nelle vallate altoatesine, uno dei suoi miti privati (non il tavolo, le vallate), insieme con Sperlonga, il tennis, la Lazio ed Elsa Morante. Qui scrive per circa tre ore, ogni giorno, trecentosessantacinque giorni l´anno, in qualsiasi condizione di salute, o di umore e fa lo stesso quando va a Sperlonga o a San Vigilio di Marebbe, luoghi prediletti di vacanza che si danno il cambio con Roma come location dei suoi romanzi, perché tutto nell´ambientazione, città, paesi, strade, deve essere estremamente familiare, come se al di là di via Mangili o via Aldovrandi ci fosse la gehenna o una giungla darwiniana, dove si lotta per la sopravvivenza e non si fanno prigionieri. Verso mezzogiorno smette di colpo di scrivere e se per caso la sua espressione tendeva al cupo, adesso ha un´aria allegrissima e dopo essersi infilato un paio di pantaloncini bianchi corre a giocare a tennis, uno sport che nessuno potrebbe praticare con tanta assiduità, alternando le discese a rete con le battute sarcastiche, come si usa nei circoli, se la sua anima fosse attanagliata da troppe angosce esistenziali. Così almeno pensavamo. Questa è la facciata. Ora, a puro titolo sperimentale, si può immaginare qualcuno dei suoi conoscenti, informato da queste brevi note, che per la prima volta si mette a leggere uno dei suoi libri, diciamo l´ultimo, (L´idea di perderti, Mondadori, pagg. 411, euro 17,50). Il libro inizia così: «Vedi quel puntino luminoso?» disse Paolo Diamanti a sua moglie Grazia. «Dove?» sporgendosi con il busto lei domandò. «In fondo, a sinistra di Ponza». «Eccola, sì». «Una nave immobile? O molto lontana, magari». Un attacco «Low profile», non di quelli che suggeriscono nei corsi di «creative writing», - scusate l´eccesso di citazioni inglesi - per dare slancio al romanzo in modo da vederlo già veleggiare. Mi ha fatto venire in mente la gag di Carlo Verdone del «Ciervo» a Ponte Sisto, dei due romani affacciati al parapetto che osservano il ramo dell´albero impigliato sotto il ponte, scambiandolo per qualche altra cosa: «E´ un ciervo?». «Ti dico che è un ciervo». «Un ciervo, ma sei sicuro?». Ma queste sono impressioni personalissime. Il lettore è un signore di buona volontà, che ha compiuto il miracolo di comprare un libro. Gliene dobbiamo essere grati. Ma è deluso perché non ritrova, a partire dall´inizio, il Montefoschi che conosce e di cui ha sentito così tanto parlare. Ma noi non possiamo farci nulla, que vaya con Dios. In questo libro, tuttavia, ancora più che in altri, la divaricazione tra l´autore e il supposto Giorgio appare così grande che i due mondi, quello che conosciamo e che vediamo nella vita reale di Montefoschi e quello della fiction sembrano agli antipodi. Sto parlando non delle strade, ma dell´atmosfera che si respira, delle sensazioni che si provano, delle persone che s´incontrano. E anche delle conversazioni che si fanno. In quasi tutti i testi di Montefoschi c´è una preoccupante tendenza dei personaggi a parlare del nulla in dialoghetti non molto diversi, tranne il dialetto, da quelli sul ciervo di Verdone. Ora un certo minimalismo di cose e fatti, storie imbastite di non eventi, come il non compleanno del Cappellaio Matto, i minuziosi, gelidi elenchi al posto delle più rischiose, impegnative, compromettenti interpretazioni, fanno parte della tradizione del romanzo moderno, così come l´epopea fa parte della tradizione del romanzo romantico. Ma qui il grado d´interesse suscitato dalla maggior parte degli scambi verbali e dalle azioni dei personaggi, se azione si può chiamare quella forma di paralisi in cui si muovono, è fermo al livello zero: certamente non per sbadataggine, ma per volontà dell´autore. La chiacchiera di cui è intessuto il libro - diamole il suo vero nome - non tutta, ma una parte cospicua, sembra la trascrizione in tempo reale delle innumerevoli conversazioni che si svolgono nell´intimo della coppia o della famiglia. Ora si può parlare per ore e discettare del nulla senza danno apparente per i conversatori, ma risulta superiore alle forze umane leggere per più di dieci minuti le conversazioni di due che parlano del nulla in tempo reale. Inoltre non è chiaro se i personaggi del romanzo, che risultano francamente appena abbozzati e che si comportano e camminano più come ombre, esseri ectoplasmatici simili a quelle figure bianche dipinte dal grande Bacon agli inizi della sua carriera, sono una conseguenza di simili dialoghi o una causa. Il lettore, sempre più perplesso, li vede andare e venire senza costrutto attraverso un mondo che viene descritto sotto forma di un catalogo di oggetti, anonimo quanto la prosa di un manuale d´istruzioni. Ed è a questo punto che si produce la crisi. Disorientata, tenuta all´oscuro dei progetti dell´autore, incapace di intuire dove il romanzo vada a parare, insoddisfatta del testo, anche se Giorgio scrive benissimo, perché non sente la storia, una parte dei lettori comincia a saltare qualche pagina e qualcuno abbandona. Anche perché si è fatto la convinzione che Montefoschi, così profondamente immerso nel suo modo d´interpretare la realtà da escludere che ce ne possano essere altri, continuerà nella sua cupa visione, lasciando sfilare tutto quello che succede nel mondo senza ordine né gerarchia di valori. Il segno distintivo di oggi sarebbe proprio la disgregazione di tutto quello che ha un senso, causata da una così acuta, terrorizzata visione del tempo come metronomo della fine, così incalzante e così presente nella vita di ogni giorno, da non lasciarti che la disperazione... Se siete dei frequentatori di cinema, oltre che lettori, avrete certamente notato qualche rassomiglianza tra i dialoghi di Giorgio e quelli del regista svizzero Rohmer, con la differenza che quelli di Giorgio sono veramente insignificanti e quelli di Rohmer dolcemente demenziali, messi in bocca a due giovani cretini che si credono innamorati. La banalità è talmente esasperante che un paio di volte stavo per uscire dal cinema alla fine del primo tempo. Invece sono rimasto e, con mia grande sorpresa, il film, a partire da un certo momento, ha operato come una metamorfosi - o sono stato io a cambiare - del tutto simile a quella delle barchette di carta cinesi, che gettate in acqua si gonfiano fino ad assumere forme imprevedibili e leggiadre, diffondendo intorno a sé come un alone di poesia. Un fenomeno simile è accaduto con il libro di Montefoschi, che avevo continuano a leggere per dovere d´ufficio. Arrivato a pag. 304 il testo ha avuto come un´impennata, assolutamente inaspettata. E´ stato come prendere uno di quegli ascensori americani, che dal nono piano, con una sola tappa, ti portano al settantacinquesimo e la vista è così cambiata che non sembra neppure di stare nello stesso edificio. Diamanti arriva in un ospedale giusto in tempo per assistere alla morte della moglie, e qui Montefoschi abbandona il suo stile punitivo, lasciando alla sua prosa le maglie leggermente più allargate in modo da far uscire qualche sentimento a temperatura costante, e raggiunge quello che immagino si proponeva da sempre. E il lettore, ancora incredulo, si è ritrovato finalmente in territori già sperimentati da altri, ma non per questo meno apprezzati. Una descrizione così toccante della morte e finalmente all´altezza del tema: non molte pagine, ma che bastano per immaginare che il giovanotto Montefoschi ha ancora tra le sue mani la possibilità di viaggiare in autostrada, invece di infilarsi su inconcludenti vie periferiche, che ritornano sempre al punto di partenza. Stefano Malatesta