Varie, 4 luglio 2006
RISI Nelo
RISI Nelo Milano 21 aprile 1920. Regista. Poeta. Fratello di Dino • Si è laureato in medicina senza mai esercitare la professione. Durante la guerra è stato sul fronte russo e poi internato in Svizzera. Dopo la Liberazione ha collaborato al ”Politecnico”, all’’Avanti!” e alla Rai di Milano; ha viaggiato in Europa e in Africa, ha soggiornato a lungo a Parigi, prima di trasferirsi a Roma, dove vive, nel 1955. Regista cinematografico, ha realizzato documentari, telefilm e inchieste per la televisione, e diversi film tra cui Diario di una schizofrenica (1968), Ondata di calore (1970), Una stagione all’inferno (1971), La colonna infame (1973). Dall’omonimo romanzo di Elio Vittorini ha tratto nel 1975 il film per la televisione Le città del mondo. Dopo l’esordio poetico Le opere e i giorni uscito per Scheiwiller nel 1941, le raccolte successive sono tutte state pubblicate da Mondadori, comprese le Poesie scelte. 1943-1975 (Oscar a cura di Giovanni Raboni) e l’autoantologia per temi intitolata Il mondo in una mano (1994). Nella collana dello Specchio sono anche usciti i titoli più recenti: Le risonanze (1987), Mutazioni (1991), Altro da dire (2000) e Ruggine (2004). La sua attività di traduttore (fra gli altri da Supervielle, Jouve, Illyés, Kavafis, Laforgue) è in parte contenuta nel volume Compito di francese e d’altre lingue (1943-1993) edito da Guerini e Associati nel 1994. Da ES è uscita invece nel 1995 la sua splendida versione dell’Edipo Re di Sofocle (’il manifesto” 19/10/2006) • «Si è una volta definito stilista dell’usuale, Nelo Risi [...] uno dei grandi vecchi della poesia italiana, il cui percorso viene [...] integralmente restituito nel volume Di certe cose. Poesie 1953-2005 (introduzione di Maurizio Cucchi, Oscar Mondadori, pp. 455, euro 12,80), che se la poesia contasse davvero qualcosa nella nostra società dovrebbe costituire un avvenimento. Il titolo che riassume la giovinezzapoetica di Risi, Polso teso (1956), già allude a un rapporto tensivo con la realtà che non implica un contenuto sociale esplicito, e tanto meno l’engagement, ma denota semmai una istanza etico-politica, una divisa morale a proposito della quale si è evocato tante volte l’Illuminismo lombardo col segno sferzante, e il necessario pallore, del Parini. ”Viaggiare/ mangiare e bere/ ben dormire/ e di tanto in tanto/ qualche massacro”: così scriveva Risi mentre si annunciava il cosiddetto boom economico. L’anomalia italiana, il suo sviluppo sgangherato, il mutare del costume e della politica, i conflitti sociali compulsati al ritmo dell’io quotidiano sono appunto i fondali delle raccolte che ne delineano la maturità d’autore, da Dentro la sostanza (1965) a Amica mia nemica (1976). Ancora una volta la scrittura vi è scandita a polso teso, il segno è netto e inciso,lo stile predilige lo schema contratto dell’epigramma e una metrica assertiva e frontale. Disse Raboni, infatti, che la scrittura di Risi nemmeno prevede la metafora e che però è metafora essa stessa, quasi un’itinerante metapoesia, ”ininterrotta” alla maniera di luard ma devoluta alla decifrazione del presente e non all’automatica liberazione dell’inconscio. La sua è in effetti una poesia che risponde e reagisce nel momento in cui si valuta e si giudica con spietatezza. Se è vero, come ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, che ”in pochi poeti come lui è tanto evidente la delusione subita dagli intellettuali progressisti formatisi negli anni dell’antifascismo e della guerra”, tale delusione non dà esiti di nostalgia e/o di rancore ma favorisce la critica e l’autocritica, come in A servizio: ”...Nessuno ci ha ancora incerottato la bocca/ nessuno fruga tra le nostre carte/ nessuno mette un timbro a piè di pagina/ nessuno brucia in piazza le nostre opere/ nessuno scrive col sangue sul muro/ non c’è neanche un Ovidio con le sue Amarezze// Le nostre collere sono bolle di sapone/ che il potere corazzato lascia correre/ compagni miei di versi”. una consapevolezza, questa, che Risi non abbandona neanche quando si fa più vasta la campitura e più complessa la trama dei riferimenti; per esempio in I fabbricanti del bello (1983), un libro dedicato a figure di artisti, che contiene Il Tasso a Sant’Anna, una delle massime poesie del secondo Novecento italiano (la quale inizia ”Ha perso la quiete/ quasi la vita stessa”), dove sul corpo incarcerato del poeta aleggiano incubi di dispotismo secolare e, nel frattempo, il bene dell’esperienza vera, la promesse de bonheur che continua ad essere il mandato di qualunque poesia. Alla sua bella età, Nelo Risi continua dunque a scrivere. un signore elegante, alla mano, pungente nelle battute, che nulla ha perduto del suo charme così come della capacità di appassionarsi e di indignarsi per i fatti correnti della cultura e della politica. [...] ”[...] continuo a pensare alla mia poesia come a una poesia civile, anzi civilissima dice l’aggettivo di un mio titolo. Un tempo mi accusavano di far parte della cosiddetta ”linea lombarda” delineata da Anceschi: era un gruppo di poeti in genere molto bravi, compreso il mio amico Luciano Erba e il grande Vittorio Sereni, ma il fatto è che io ho avuto un percorso diverso, tutto mio. Sono nato a Milano, dove ho fatto il liceo, e mi sono iscritto a medicina, poi di colpo sono stato spedito sul fronte russo con l’Armir. Eravamo sul Don, nelle divisioni che i russi chiamavano cikai, cioè ”scappa”, un nome che già rende l’idea, prima della grande ritirata descritta dai nostri scrittori che si sono salvati, i miei amici Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern. Io ero sergente di sanità, in pratica un infermiere, e con l’intelligenza tipica dei militari, ridicola e assurda, costoro pensavano che col tempo sarei diventato medico del reggimento, come se la guerra avesse dovuto durare in eterno. Un giorno arriva un dispaccio che mi richiama inpatria per terminare gli studi e diventare appunto unsanitario dell’esercito. Eravamo attendati a quindici sotto zero, non esistevano mezzi di trasporto, dall’altra parte del Volga c’erano i russi, cui peraltro non abbiamo mai sparato un colpo, insomma ci hanno detto arrangiatevi, e questo a seicento chilometri da Leopoli, dove si trovava la prima ferrovia: così io e un altro studente di medicina ce ne siamo tornati come eravamo arrivati, a piedi e non in camion, grazie a quello che si potrebbe chiamare lo spartachismo di Mussolini, del tutto velleitario per i duecentocinquantamila uomini mandati al macello. [...] Vengo da una famiglia laica e non sono battezzato, mio padre, che ho perso quando avevo otto anni, era un repubblicano storico, un medico, ed è stato tra l’altro anche il medico dello scrittore Gian Pietro Lucini. Poi mia madre, una donna estremamente intelligente, che conosceva il tedesco e leggeva a me, a mio fratello Dino e a mia sorella, le poesie di Goethe. Eravamo una famiglia della borghesia milanese, quella che oggi non esiste più, di professori universitari, di chimici, e specialmente di ingegneri e architetti per il ramo materno. Il primo libro mio, che ho veramente letto e che mi ha appassionato, è L’idiota di Dostoevskij, la storia del principe Myskin, poi tra il liceo e l’università mi sono formato via via una coscienza letteraria che mi ha portato a scrivere, anzi a voler scrivere, sulla base di apporti del tutto particolari. Prendiamo i francesi: a me interessavano i jongleurs mentre da noi c’era allora l’ermetismo e il culto di Mallarmé, che io non ho mai avuto. Salvavo Rimbaud, ma a vent’anni è comodo salvare Rimbaud, perché ti identifichi in lui. Sapevo anche chi era Giuseppe Ungaretti ma mi interessava per un motivo molto preciso, cioè per Il porto sepolto, le poesie di guerra che sul fronte russo mi capitava di rammentare. Già allora avevo dentro un profondo sentimento della vita/morte, col loro intreccio costante, indissolubile: non ho mai avuto il senso della trascendenza ma, fino in fondo, quello della immanenza. [...] ho dovuto far eu nponte della mia educazione laico-moralistica. Ero anomalo rispetto ai poeti coetanei,mi sono dovuto fare da solo, ma avevo in me una linea condizionante. Per prima cosa, il lato ironico (poi molto sviluppato nel cinema da mio fratello Dino), la critica del costume di una società, e infatti mi riconoscevo in Prévert o in Raymond Queneau che poi ho conosciuto bene quando stavo a Parigi, negli anni cinquanta. Non dimentichiamo comunque che di mezzo c’era stata la guerra: cosa può fare un ragazzo tolto in quel modo dagli studi di medicina, che vede cambiare radicalmente la sua vita di colpo, dentro e fuori di sé? Finita la guerra, ho lavorato al Politecnico di Vittorini e ho continuato a occuparmi di temi e di autori atipici, poi ho preso finalmente la laurea. Non ho mai fatto il medico, come del resto mio fratello, ma mi interessavano, e mi interessano ancora, tutte le patologie e relative cliniche, materie degli ultimi due anni di corso, le quali ti danno una particolare dimensione e cognizione della realtà: anatomia, dissezione di cadaveri e così via. Si guardi a Céline, soprattutto a quello dei primi due romanzi, Viaggio al termine della notte e Morte a credito, l’uomo che ha sovvertito il linguaggio di Gide e Claudel, un medico, anzi un medico dei poveri, e un anarchico, scrittore grandissimo, non dico quello che in seguito ha voluto firmare dei vergognosi pamphlet antisemiti. [...] Ho sempre svicolato nella vita, ho sempre rischiato, come capita ai timidi che cercano ogni volta di mettere alla prova se stessi: a diciott’anni per esempio mi piaceva scalare le montagne e lo facevo senza guida, perché le guide costavano. Questo lato avventuroso mi è rimasto, credo per tentare di vincere le mie deficienze. Allora non mi sentivo un futuro professore di liceo, ma uno che cercava la vita. Caso fortuito, nell’immediato dopoguerra, in ritardo forzato all’università, mi capita di incontrare due grandi fotografi, un inglese e un americano, che avevano fatto lo sbarco in Normandia e giravano per l’Europa in macerie: a Milano hanno chiesto se c’era qualcuno, magari uno studente, che potesse seguirli perché volevano realizzare un documentario sull’attività partigiana e sulle distruzioni operate dalle SS nella valle del Po. Siccome mi arrangiavo con le lingue li ho accompagnati io: dopo circa un anno mi sono ritrovato in mano la macchina da presa, una Arriflex, e sono andato a Berlino, completamente distrutta, insieme con loro e poi sul Reno a documentare i danni della sifilide che stava imperversando fra la popolazione. Dunque sono nato documentarista e questa radice si vede in tutti i miei film a cominciare dal Diario di una schizofrenica, ma anche nella Colonna infame e nel film tratto da Rimbaud e persino in Idillio, il film girato per la Rai [...] a Recanati, che racconta il giorno in cui il conte Giacomo Leopardi scrive L’infinito. Tuttora mi sento un documentarista e il film a cui sono più legato è proprio il mio esordio, Ritorno nella valle, girato per l’Unesco in Grecia in piena guerra civile, credo nel ”49, la storia degli abitanti di un paese bruciato dalla Wehrmacht, ottocento o mille persone fuggite a sud in una specie di campo di concentramento verso il canale di Corinto: ho girato dal vero la storia di queste persone, dei montanari che vogliono tornare dal Peloponneso ai propri monti, sul confine con la Macedonia, per ricostruire il loro villaggio. [...] non mi sono mai iscritto al Partito comunista perché ho un fondo anarchico, che rimane. [...] Che cosa vuol dire essere poeti? Non hai una lira e crepi oppure sei alienato, malato, come i grandissimi Rimbaud e Campana... Però l’orfismo, compreso quello italiano, e comprese anche certe cose di Mario Luzi, mi ha sempre dato fastidio, insieme con ogni idea di trascendenza. Un giorno mi è capitato in mano, per caso, il libro delle lettere del Tasso dalla prigione/manicomio di Sant’Anna, a Ferrara, e mi sono detto: possibile che sempre, nella vita, quando c’è un talento che è fuori dalla norma e dal senso comune, per una ragione o per l’altra, viene considerato pazzo oppure si suicida? Ho ritratto il Tasso nel momento in cui questo giovane di trentotto anni piange perché i topi gli mangiano le gambe, prima che qualcuno vada a trovarlo in galera (come poi Montaigne, ad esempio) e lui si lamenta, gli mancano gli amici, i potenti e le gentildonne in visita, i vestiti alla moda, e ha paura, è atterrito dall’Inquisizione ma confessa colpe che non ha, esige di essere esaminato e punito come eretico. Ecco, la sua contraddizione, il suo strazio, il suo cercare la verità e intanto sprofondare nella follia, io l’ho sempre sentito come il simbolo della poesia moderna» (Massimo Raffaeli, Francesco Scarabicchi, ”il manifesto” 19/10/2006).