Jacopo Iacoboni, La Stampa 28/6/2006, pagina 5, 28 giugno 2006
Diba e gli altri. La Stampa, mercoledì 28 giugno «Non mi sento una bandiera», disse una volta Agostino Di Bartolomei
Diba e gli altri. La Stampa, mercoledì 28 giugno «Non mi sento una bandiera», disse una volta Agostino Di Bartolomei. «Una bandiera non può stare in cassa integrazione». Nessuno s’era accorto che si stava suicidando. Non è neanche detto che a Gianluca Pessotto, con esiti per fortuna diversi, sia capitato qualcosa di analogo, sentirsi improvvisamente alle prese con qualcosa che ci attacca, e non è neppure marcabile, come Van Basten o Gullit; e però. Il calcio che esce dal calcio s’è trovato spesso a giocare l’ultimo dribbling, con la vita, perdendosi e facendo rimpallare la palla sugli stinchi. Anche chi, in campo, era stato un attaccante, e non un difensore, oltretutto tostissimo. Andandosene, Diba lasciò scritto alla moglie «adorata Marisa, mi hanno rifiutato il mutuo perché non mi hanno rilasciato il benestare...», cercava certi finanziamenti per aprire un «College del calcio» in cui uno come lui, evidentemente, qualcosa da insegnare magari l’aveva. Un suo caro amico, il giornalista Domenico Morace, scrisse «non accettava che il mondo del calcio gli voltasse le spalle». Ecco, perché è così difficile accettarlo, ammesso che sia stato questo, assieme ai problemi familiari, ciò che ha messo in crisi Pessotto? Qui non c’entrano niente, ovvio, i tentati suicidi alcolici alla George Best; o il Maradona uscito dal tunnel della coca che una volta confidò «in certi momenti solo il pensiero di Dalma e Gianina, m’ha trattenuto». Eppure è quasi un tragico Leit motiv quello del calciatore che vive il trapasso al post-calcio come un tramonto, l’entrata in un percorso meno decifrabile di una marcatura a zona o a uomo. Ci sono caduti tanti. Non tutti sfortunati come il Diba, non tutti così in crisi come Pessotto. Giancarlo De Sisti raccontò al funerale dell’amico «in momenti come questi, quando ti senti abbandonato, provi di tutto, amarezza, delusione, un senso di schifo». Aggiunse: « capitato anche a me. Il calcio è crudele, specie quando ti manca». Lentini, finito a giocare in C, confessò «ho passato momenti terribili». Aldo Agroppi la sua depressione l’ha raccontata in tv. Persino il duro Gigi Radice, in una stagione solitaria, si lasciò andare una sera, «non mi chiama nessuno, mi sento solo. E sto un po’ morendo dentro». Succede, in più di un caso, a quelli che hanno attraversato il calcio avendo letto un libro di troppo, amato e sofferto con una donna, ragionato con più gentilezza di quanto, onestamente, fosse ammessa: e non solo nel campo verde. Li chiamano calciatori perbene; come tali, per forza, inadeguati. Jacopo Iacoboni