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 2006  giugno 28 Mercoledì calendario

Da Cesarini a Douglas, gli eroi dell’ultimo secondo. La Stampa, mercoledì 28 giugno Tic, tac. Il tempo sprinta e tu sei la virgola fra i due battiti, la membrana istantanea e magra che separa vittoria da sconfitta, gioia e catastrofe

Da Cesarini a Douglas, gli eroi dell’ultimo secondo. La Stampa, mercoledì 28 giugno Tic, tac. Il tempo sprinta e tu sei la virgola fra i due battiti, la membrana istantanea e magra che separa vittoria da sconfitta, gioia e catastrofe. Vincere all’ultimo possibile respiro della lancetta, all’ultimo fruscio di clessidra è l’essenza sublime e cinica, il succo agrodolce dello sport. Perché è vittoria plurale, che vale doppio. Chi vince rantolando uccide nel modo più crudele l’avversario che già viveva oltre, nell’attimo che non accadrà più. E sconfigge il Tempo, si regala un’illusione di eternità, ritarda simbolicamente l’ora che non ha sorelle, quella della morte. Come fa Peter Pan sfuggendo, ogni volta e per sempre al coccodrillo che si avvicina affamato, la sveglia ticchettante nello stomaco, sull’Isola che non c’è. L’inciampo tempestivo di Grosso, il rigore a tempo scaduto di Totti contro l’Australia sono l’ultima interpretazione di un copione ripetutamente inedito. La penultima, se ci fermiamo alle vicende nostrane, data poco a più di un anno fa: Ruben Douglas che in gara quattro della finale scudetto di basket 2005 si alza non prima, non dopo, ma sulla sirena, e gela Milano, consegnando il tricolore alla Fortitudo Bologna dopo un interminabile setaccio degli arbitri davanti all’istant replay. No hay magnana, nino. Non c’è domani. Quello che va fatto bisogna farlo qui, e ora. E pazienza se quell’«ora» è tanto sottile da sembrare già un «dopo», rannicchiato in uno scarto indecifrabile agli occhi umani. Gli americani lo chiamano «buzzer beater», il tiro che batte la sirena. Era già accaduto nel 1972, a Monaco, nella finale Olimpica fra Usa e Urss, la vecchia Urss. La Guerra Fredda bolliva sotto il parquet. Gli ultimi tre secondi furono fatti rigiocare per un time-out forse mai chiamato dai russi, per un cronometro mal resettato, su un 50-49 per gli yankee che pareva definitivo. Dopo lunghissime discussioni la palla tornò in gioco e finì in un amen nelle manone di Alexander Belov. Le manone non fallirono: 51-50 per i cosacchi. Gli Usa, sorpassati in un non-tempo inventato ed estremo, teorico e diplomatico, si rifiutarono persino di ritirare la medaglia d’argento. Nel 1998 era stata la Fortitudo a trovarsi dalla parte sbagliata del cronometro, bloccata a 17 secondi dal sogno da una tripla di Danilovic, più fallo di Wilkins, che portò la Virtus ai supplementari, allo scudetto, alla fine di un’era congelata in quell’istante. In panchina c’era Carlton Mayers, l’espressione di orrore di chi ha già capito tutto deflagrata sul volto mentre Danilovic, in aria, ancora cullava la palla fra le falangi. Tempo fatto immagine. La stessa espressione della tifosa di Utah immortalata quello stesso anno in una sequenza fotografica da Sport Illustrated. Un film muto che si chiama «The shot», Il Tiro; l’attore principale ovviamente è lui, Michael Jeffrey Jordan. Sei secondi e sei decimi dalla fine di gara sei delle finali Nba fra Chicago Bulls e Utah Jazz, a Salt Lake City. E tre sei di fila fanno il numero dell’Anticristo, e Salt Lake è la città dei Mormoni. MJ ruba palla a Carl Malone, penetra nell’area di Utah, taglia fuori il destino. Le mani della tifosa stanno nei capelli, disperate sullo sfondo della scena. Il braccio di Jordan è infilato in una nicchia satanica, impossibile, sospesa. La palla sta all’inizio di una traiettoria perfetta che finirà nel cesto. Nel calcio quella nicchia, per noi italiani, si chiama Zona Cesarini. Porta il nome di Cesarini Renato, oriundo di ritorno dall’Argentina e nazionale, grande ballerino, grande pedatore, grande eccentrico (girava per Torino con una scimmia al guinzaglio). Il 13 dicembre del 1931 Cesarini segnò una rete all’ultimo minuto di un’amichevole fra l’Italia e i maestri ungheresi. In campionato aveva realizzato una prodezza del genere, il cronista parlò di «Zona Cesarini»: il luogo immortale e rapinoso era stato delimitato. Un luogo arredato da Schnellinger e dal suo scivolone «traditore» al 92esimo, che generò i supplementari eterni di Italia Germania 4-3 a Messico ’70, e dalla tigna del Manchester United nella finale di Champions League del ’99, quando il Bayern Monaco, avanti uno a zero, incassò all’ultimo minuto dei tempi regolamentari il pareggio da Sheringham, al primo dei supplementari la beffa di Solskjaer. Una zona diabolica, importata nel rugby dal destro di Jonny Wilkinson, il capitano degli inglesi capace di infilare - quando sul cronometro dell’extra-time restavano solo 25 secondi - il drop decisivo della finale dei Mondiali 2003 contro l’Australia (ah, canguri recidivi). Una zona maledetta, che nel football americano ha marchiato con fama rancida Scott Norwood, il kicker dei Buffalo Bills. A 8 secondi dalla fine del XXV Superbowl Scott lo sciagurato fallì il calcio della vittoria contro i New York Giants. «Wide right»", fuori a destra, urlò nel microfono il commentatore tv. Una frase trasformatasi - istantaneamente - nel marchio d’infamia dei Bills, sconfitti in altre tre finali. E nell’eco della condanna di Norwood, Cesarini stampato in negativo sulla storia. Stefano Semeraro