Eugenio Occorsio, Affari & Finanza 3/7/2006, 3 luglio 2006
Warren Buffett, il grande saggio del capitalismo. Affari & Finanza, lunedì 3 luglio «L’abilità nel fare soldi muovendo quantità sempre crescenti di capitali, non sarebbe di alcuna utilità a meno di vivere in un ricco, popoloso paese in cui immense quantità di titoli negoziabili siano trattate spesso a prezzi gonfiati in modo ridicolo
Warren Buffett, il grande saggio del capitalismo. Affari & Finanza, lunedì 3 luglio «L’abilità nel fare soldi muovendo quantità sempre crescenti di capitali, non sarebbe di alcuna utilità a meno di vivere in un ricco, popoloso paese in cui immense quantità di titoli negoziabili siano trattate spesso a prezzi gonfiati in modo ridicolo. E guarda caso, questo è quanto è accaduto a me qui in America». E’ in queste parole di Warren Buffett, pronunciate in un’intervista a Fortune la settimana scorsa, tutto il senso della sua filosofia di vita. Uno way of life che ha portato questo schivo signore del Nebraska, cuore del midwest, come dire la provincia più profonda degli Stati Uniti, a diventare il secondo uomo più ricco del mondo, con una fortuna personale pressoché incalcolabile, quantificata empiricamente da Forbes in 44 miliardi di dollari ma probabilmente molto più vasta. E tutto questo con una sorta di incredulità che traspare proprio da queste parole, quasi che non ci voglia credere che gli sia bastato comprare e vendere azioni per tutta la vita per diventare così oltraggiosamente opulento. Ma, lo dice lui stesso, il destino lo ha fatto nascere in America, e lui ha tratto il meglio da questa ventura. A differenza del numero uno per ricchezza, Bill Gates, e di tutti gli altri protagonisti della Top Fifty, Buffett non ha né ereditato né creato grossi gruppi industriali: «Io sono stato sintonizzato fin dalla nascita per fare soldi con i soldi», ha spiegato candidamente. Ha cominciato a 11 anni, comprando le prime azioni con i proventi della vendita delle limonate a scuola. Oggi di anni ne ha 76, e non ha mai smesso. Con il tempo, è diventato un punto di riferimento, l’«oracolo di Omaha». E’ un vecchio saggio in grado di elargire consigli, scambiare pareri, ricostruire esperienze. L’assemblea annuale della Berkshire Hathaway nel Nebraska, la sua finanziaria ’personale’ (anche se quotata a Wall Street) è un happening che dura tre giorni nella prima settimana di maggio: la ’Woodstock del capitalismo’, fra balli, feste, incontri, e soprattutto ore ed ore al Civic Auditorium di Omaha in cui Buffett spiega infaticabile le sue strategie, le sue scelte, le sue visioni. Poi si siede su una panchina uno dei pratoni che circondano la cittadina e continua a rispondere con fare disponibile e voce amichevole a ogni tipo di domanda. Poi, tanto per chiudere, si getta nelle danze alla Berkshire Shareholder Night ospitata dalla Gorat’s Steakhouse. Quest’anno ne convocherà una straordinaria, di assemblea, per spiegare la sua ultima scelta, sorprendente ma non troppo se si considera la dichiarazione prima riportata: donare in beneficienza l’85% della sua fortuna personale. Qualcosa come 31 miliardi di dollari, che potrebbero diventare molti di più. Da accorto gestore dei suoi capitali, Buffett ha infatti predisposto un piano di donazioni anno dopo anno, che scatterà da subito, parte in cash e parte in azioni della Berkshire. E’ stato studiato in modo strategico per non danneggiare gli azionisti di minoranza, e se come è realistico attendersi viste le performance del passato le azioni si rivaluteranno in questo tempo, porterà il totale della donazione finale ad essere molto più cospicuo. «Io la penso come Andrew Carnegie ha spiegato lo stesso Buffett e cioè mi ritengo talmente fortunato dall’aver realizzato tante fortune a spese della società degli umani, che diventa un obbligo restituire alla società stessa buona parte di questi capitali». E’ di gran lunga la più grande donazione mai effettuata in America e nel mondo, è un esempio straordinario della miglior etica del capitalismo protestante. Non si tratta più solo di agevolazioni fiscali, come si dice ogni volta che ci si imbatte in una donazione del genere in America, ma di una reale volontà di redistribuire le ricchezze. Beneficiaria di tutta questa bonanza sarà la Bill & Melinda Gates Foundation, ritenuta evidentemente più efficiente di qualsiasi istituzione pubblica nel gestire gli aiuti. Quella fra Gates, numero uno nella classifica dei più ricchi del pianeta (davanti appunto a Buffett) e l’oracolo di Omaha, è un’amicizia nata quindici anni fa che si è andata rafforzando, oltre ovviamente per un naturale istinto di comunanza fra due personaggi così potenti, proprio alla luce di questo crescente impegno comune a favore dei meno fortunati abitanti del pianeta. Gates è già membro del consiglio della Berkshire, ora Buffett entrerà nel ristrettissimo board della Fondazione Gates, che comprende per ora solo Bill e Melinda. Certo, differenze di visione i due ne hanno. Prendiamo le stock option: Bill Gates ne ha fatto uno strumento di grande forza, motivando con esse i dirigenti della Microsoft ad ogni livello, Buffett non solo non le adotta ma le vede come un pericolo per la salute del sistema economico stesso. Buffett, che va in giro con una vecchia Buick e non si è mai sognato di comprarsi un aereo o una villa al mare, si è autoattribuito dalla Berkshire uno stipendio di 75mila dollari, immutato da 21 anni. Aggiungendo altre forme di compensazione (soprattutto i gettoni di presenza per i tanti consigli d’amministrazione di cui fa parte) arriva a 300mila dollari. E basta. Di opzioni neanche l’ombra. Ovviamente se ha bisogno di "spiccioli" basta che venda qualche infinitesima partecipazione delle tante che ha in portafoglio (solo per fare un esempio possiede azioni della CocaCola che valgono oggi 15 miliardi e mezzo di dollari e della Disney per 8 miliardi), ma per il suo lavoro strettamente inteso il suo stipendio è quello. I manager di tante società quotate a Wall Street guadagnano cinquanta o cento volte di più. I motivi dell’opposizione di Buffett alle stock option sono prettamente tecnici. Visto che ovviamente la loro stessa esistenza spinge i capi azienda a massimizzare il valore su un termine più breve possibile, gli amministratori delegati (e anche tutti gli altri top executive che godono di quest’elemento aggiuntivo della retribuzione) intraprendono continuamente politiche di breve respiro. L’ obiettivo è solo quello di produrre risultati trimestrali positivi in modo da spingere in alto il titolo. Magari rialzi estemporanei, destinati a rientrare dopo poco tempo appena si scopre che i risultati che li avevano generati sono in realtà poco convincenti. I Ceo non lavorano nell’interesse della società, che sarebbe quello di impostare investimenti veramente strutturali in grado di dispiegare i benefici nel tempo, ma l’importante è usufruire di quella finestra di rialzi per poter esercitare al meglio le option. Non è l’unica battaglia che vede protagonista Buffett: nella lettera agli azionisti poi discussa nell’ultima assemblea di Omaha, in maggio, si è ancora una volta scagliato contro l’uso indiscriminato di derivati, consigliati da molti gestori di fondi agli investitori. Sarebbero, nelle parole di Buffett, delle «vere e proprie armi di distruzione di massa» per la delicatezza intrinseca, l’imprevedibilità e la vastità del danno che possono creare a ignari risparmiatori. Buffett, un democratico convinto che è stato da giovane consulente di John Kennedy, non risparmia attacchi neanche contro la politica economica di Bush, in particolare il suo tanto sbandierato progetto di taglio delle tasse per favorire l’economia. «Se leggete con attenzione i vari progetti che si sono susseguiti in questi anni vi accorgerete che l’ammontare complessivo delle tasse che il governo incassa non cambia. Quello che cambia è solo la composizione dei contribuenti: i ricchi finiscono col pagare molto meno, i poveri di più». Non è finita: la stessa lettera, per la cui redazione Buffett si avvale dal 1977 della collaborazione di Carol Loomis, condirettore di Fortune (così si spiega che la settimana scorsa, al momento dell’annuncio della donazione alla Gates Foundation, l’unica intervista ’esplicativa’ l’ha data a Fortune) era permeata di sfiducia nel mercato azionario americano. «Oggi comprare azioni è più rischioso che comprare junkbond», diceva senza mezzi termini, e a conferma di questa posizione Buffett rendeva noto che sta investendo massicciamente appunto in junkbond. Una posizione che il finanziere ha attenuato solo in minima misura discutendo con gli azionisti in assemblea. «Mi dicono che ora voglio uscire di scena: rispondo che non solo non ho nessuna intenzione di ritirarmi, ma che continuo a investire». Continuerà ancora a investire, e stavolta lo farà in nome della beneficienza. Eugenio Occorsio