Antonia Jacchia, Corriere della Sera 2/7/2006, pagina 25, 2 luglio 2006
Acciaio, in Europa giochiamo ad armi pari. Corriere della Sera, domenica 2 luglio Un settore forte come l’ acciaio
Acciaio, in Europa giochiamo ad armi pari. Corriere della Sera, domenica 2 luglio Un settore forte come l’ acciaio. Che a dispetto della bolletta energetica, delle concentrazioni internazionali e dello stallo nazionale tira, e anche il prossimo anno continuerà a crescere. E lui, il patriarca, che a 80 anni appena compiuti è ancora il timoniere di un colosso da 8,6 miliardi di giro d’ affari, con il primato in Italia (ha il 66% circa della produzione), la quarta posizione in Europa e la decima nel mondo, scommette ancora sul successo del suo gruppo, «il più piccolo dei grandi», e sulla ripresa dell’ economia. Emilio Riva è un uomo controcorrente. Mentre gli altri per crescere pensano alla quotazione o allo shopping, lui sta ben lontano dalla Borsa e alle aziende preferisce gli impianti («il know how ce l’ ho io, se compro una società poi mi tocca chiuderla»). Mentre i grandi del mondo fanno fondazioni e beneficenza per non viziare i figli, lui i figli e i nipoti («ma solo i maschi») li ha voluti tutti in azienda passando però prima dal reparto, perché «per comandare bisogna prima saper lavorare». E alla domanda provocatoria «se le chiedessero di vendere?» risponde: «A patto che sia tutto cash al momento della cessione». Ma avverte: «Solo per l’ impianto di Taranto non bastano 30 miliardi». Ma non è troppo? «Taranto è strategica come posizione geografica, l’ unico impianto dove, dopo 11 anni di ammodernamenti, facciamo il ciclo integrale. E lo potenzieremo ancora. Produceva sei milioni di tonnellate, nel 2005 ne ha fatti 9,5 e l’ obiettivo nei prossimi anni è di arrivare a 11,5 milioni». E rispetto ai concorrenti? «Cerchiamo di essere efficienti fino all’ esasperazione. Io guardo sempre avanti, e anche se non mi sento il primo ci metto del mio. Se riusciamo a introdurre miglioramenti nella produzione e a diminuire i costi non lo andiamo a dire in giro». Insomma, non avete paura di nessuno? «Chi fa paura è la Cina, da sola fa un terzo della produzione mondiale. Noi siamo decimi al mondo e se continuano le concentrazioni diventeremo ottavi. Certo, abbiamo scalato posizioni perché davanti qualcuno è sparito, comprato da questo o da quello. Tutti sono abilissimi a fare acciaio, ma il servizio che Riva fa al cliente i grandi complessi cinesi non sono in grado di farlo: in Italia e in Europa giochiamo ad armi pari». Anche con i cinesi? «Anche loro devono comprare il minerale, dall’ Australia o dal Brasile, e poi venire in Italia. Se un cliente italiano ordina 100mila tonnellate di acciaio a un gruppo cinese è possibile che aspetti anche mesi. E il maggior costo del trasporto alla fine equivale al minor costo della manodopera. Quando l’ acciaio cinese arriva qui costa quanto il mio». Perché non andate voi a produrre in Cina? «Andare a fare affari con loro? Ma io non voglio insegnare a nessuno, loro imparano e poi ti salutano. C’ è da sperare che il loro mercato interno cresca in modo tale da assorbire la produzione e limitare le esportazioni. Oppure si potrebbe pensare a uno scambio merci: la Cina esporta in Europa ma ci lascia fare altrettanto». Il 2005 è andato bene, il 2006 è sulla stessa linea, come sarà il 2007? «Spero che i produttori di materie prime si calmino, dal 2003 al 2005 il prezzo del minerale è cresciuto del 100%, a 73-74 dollari la tonnellata». Non temete che dopo la fusione Arcelor-Mittal siano loro a determinare il livello dei prezzi in Europa? «Vede, ora che il loro consiglio di amministrazione si riunisce, e tutti si mettono d’ accordo, noi il ritocco dei prezzi l’ abbiamo fatto già da tre giorni. La differenza sta nel potere decisionale e nella velocità. Io e i miei figli ci troviamo a pranzo a mezzogiorno e loro mi dicono: ’ papà che facciamo? Aumentiamo? Diminuiamo? E poi decidiamo’ . Ecco, vorrei mantenere questa snellezza di potere decisionale». C’ è chi parla di pericolo di un cartello.. «In Europa i cartelli non dovrebbero essere permessi...». Di solito in un’ azienda familiare come la vostra i problemi nascono con la successione.. «I miei figli sono da vent’ anni in azienda. Il più giovane, trentenne, da dieci. Poi ci sono due nipoti, figli di mio fratello. Il settimo nipote, Emilio Massimo, figlio di Fabio, il più grande, è del 1980, l’ unico laureato. Adesso è a Taranto». In amministrazione, in finanza? «No, in reparto. L’ altro giorno hanno avuto un problema con un tubo di grafite, poverino era tutto nero di carbone. E lei da quanto si occupa di acciaio? «Ho iniziato a lavorare il 20 maggio del 1941 fanno 65 anni. Il mio capo mi diceva di ritagliare le buste usate per utilizzare la carta come blocco appunti». Che stipendio ha suo nipote? Percepisce dei dividendi? «Niente dividendi, né stipendio. Solo emolumenti. Nessuno dei Riva ha mai voluto farsi pagare la previdenza». E lei quando va in pensione? «Beh, io sono in pensione, ma rimango presidente, e firmo i bilanci». Sempre contrario alle donne in azienda? «In azienda no, una donna mi fa paura. Con la sua sensibilità, con tutte quelle arti che l’ uomo non sa usare. E anche nelle trattative preferisco avere a che fare con un uomo». Per un gruppo come il vostro non sarebbe meglio diversificare, si era parlato di energia e dell’ Edison... «Ero socio di Edison in Ise, ma poi ho venduto. Credo che ognuno debba fare il proprio mestiere. Io so fare bene l’ acciaio». Ma altri gruppi dell’ acciaio hanno quote in banche, nelle telecomunicazioni... «Non è il mio caso, ho qualche azione di banche che mi ha lasciato mia nonna e neppure so quante sono. I nostri utili sono tutti reinvestiti in azienda. E i miei colleghi i soldi li fanno con la siderurgia, e non con le diversificazioni». L’ acciaio italiano ha bisogno di consolidamento? «Qualcuno mi ha raccontato di avere un piccolo forno a Odolo, mentre suo cugino ne ha uno della stessa capacità a 3 chilometri di distanza. Perché non si fondono? Perché ognuno vuole essere padrone a casa propria. E poi non ci sono sinergie o risparmi possibili». Sono quindi destinati a scomparire? «Dico solo che qualche anno fa a Brescia c’ erano 80 produttori e una sessantina di forni elettrici, ora ce ne sono 4 o 5. Si sono autoeliminati e non vedo alternativa. E poi non c’ è più la voglia, ora le ultime generazioni girano in Ferrari». Il gruppo Riva non potrebbe servire da polo di attrazione? «Dovrei tirare dentro qualcuno come azionista. Mentre se acquistassi aziende dovrei chiuderle». Da industriale come giudica il dibattito sulle aggregazioni bancarie? «Dico solo che fino a qualche anno fa, prima di Intesa, avevo tre banche da mettere in concorrenza, Cariplo, Comit e Ambrosiano, ora invece ne ho una sola». E se un giorno Mordashov le chiedesse di vendere? «Gli direi che metà mondo è da vendere e metà è da comprare. Io mi affeziono alle persone e non alle cose. Mi dica quanto mi vuole dare e nel giro di mezz’ ora gli rispondo di sì o di no. Però con pagamento per contanti alla girata delle azioni, un po’ come ho fatto quando ho comprato l’ Ilva». Antonia Jacchia