Siegmund Ginzberg, la Repubblica 1/7/2006, pagina 47, 1 luglio 2006
Un esercito di schiavi la Repubblica, sabato 1 luglio Il grosso, insolubile problema coi «liberatori» era che, agli occhi degli abitanti del paese, erano innanzitutto occupanti
Un esercito di schiavi la Repubblica, sabato 1 luglio Il grosso, insolubile problema coi «liberatori» era che, agli occhi degli abitanti del paese, erano innanzitutto occupanti. Ciascuna delle parti dava del terrorista all’ altra, l’ accusava di barbarie e atrocità. Ci fu un’ orgia di violenze e brutalità da far accapponare la pelle. La fama peggiore toccò a quelli che si definivano «combattenti per la libertà». Erano gli stessi che anni prima erano stati additati come responsabili del più spaventoso, più distruttivo attentato subito da New York. La superpotenza planetaria che era intervenuta per sedare caos e disordine, sistemare una ribellione molto legata a particolarismi locali, verrebbe quasi da dire «tribali», non si aspettava di ritrovarsi così impantanata. Non le valse che si presentasse come campione dell’ ordine, della civiltà, di una propria concezione della «globalizzazione», persino dei diritti universali dell’ uomo. Non le valse presentare gli avversari come fanatici, settari religiosi, oscurantisti che avevano in mente solo i propri interessi particolari e come campioni della schiavitù. Sarebbero stati i ribelli ad imporre la propria rivoluzione, per i due secoli e mezzo successivi, come modello della lotta per la libertà, contro la tirannia. Ed è la loro Costituzione, nata tra molte ambiguità e mille compromessi, ad essere ancora oggi il faro della democrazia nel mondo. L’ ultimo libro dello storico Simon Schama, Rough Crossings: Britain, the Slaves and The American Revolution, non parla di Iraq o di Vietnam, ma è, a modo suo, denso di sorprendenti evocazioni sull’ attualità. La narrazione - che si legge come un romanzo - si incentra sul ruolo dei neri nella rivoluzione americana, e, in particolare, la sorte delle decine di migliaia di schiavi fuggiaschi che attraversarono le linee e si arruolarono volontari nelle file britanniche, per combattere contro i loro padroni americani, dopo che Lord Dunmore, il governatore britannico della Virginia, aveva emesso nel novembre 1775 un proclama in cui gli si offriva la libertà se si fossero messi al servizio della Corona britannica. La documentazione è impressionante, il racconto ha il piglio e brio letterario consueto per Schama. Nel lettore lascia l’ impressione che niente fu come siamo abituati a sentircela raccontare. Certo non come ce l’ ha data ad intendere Mel Gibson nel suo film The Patriot, di qualche anno fa. Schiavi neri avevano combattuto anche tra le file dei rivoluzionari americani, talvolta in «rappresentanza» dei loro padroni, ma in numero irrisorio rispetto a quelli che invece combatterono per gli inglesi. Si calcola che i negri che fuggirono dalle piantagioni per mettersi al servizio dei britannici furono 80-100.000. Uno si chiamava Henry Washington, il nome gli veniva dall’ essere tra gli schiavi di George Washington. Un altro dei padri della patria americani, Thomas Jefferson, ne perse in questa maniera una trentina. Lasciarono i loro padroni per arruolarsi col nemico gli schiavi di James Madison e di Benjamin Harrison, i firmatari della celebre dichiarazione di indipendenza che proclamava che «tutti gli uomini sono nati liberi ed eguali». Fuggì Ralph Henry, schiavo di Patrick Henry, interpretando a modo suo il motto «datemi la libertà o datemi la morte» per cui è rimasto famoso il suo padrone. Francis Marion, l’ eroico «patriota» guerrigliero delle paludi del South Carolina sulla cui figura è basato il film di Mel Gibson, avrà anche avuto dei neri a suo fianco, ma almeno uno dei suoi schiavi finì con l’ arruolarsi nello squadrone di dragoni britannici che gli dava la caccia. Molti dei fuggiaschi non riuscirono nemmeno ad arrivare a destinazione. Furono riacchiappati, puniti in modo feroce ed esemplare, riconsegnati ai legittimi proprietari, rivenduti in aste pubbliche, incatenati, crudelmente frustati, spesso linciati o sommariamente giustiziati se sorpresi con le armi in pugno, talvolta decapitati e le teste esposte perché servissero da esempio. Quelli che ce la fecero a porsi sotto la protezione degli occupanti britannici furono inquadrati in reparti neri, o più frequentemente utilizzati come forza-lavoro, nei servizi di approvvigionamento, come guide, spie o nelle mansioni più umili. Quelli che combattevano si distinsero in ferocia nell’ ammazzare i loro ex padroni e saccheggiare le loro proprietà. Servivano a requisire vettovaglie e bestiame per gli inglesi, e a far terra bruciata per i «ribelli» patrioti. Quando le cose cominciarono a mettersi male per gli inglesi, divennero la punta della guerriglia per i «lealisti» alla corona (o della contro-guerriglia che dir si voglia). Leggendarie - quanto terrificanti per gli indipendentisti americani - divennero le imprese di uno schiavo di nome Tito, che si faceva chiamare «colonnello Tyle». Con la sua banda di un centinaio di neri riuscì a terrorizzare per quasi due anni il New Jersey, assassinando gli esponenti più in vista della milizia patriottica locale, in modo mirato, colpendo quelli che si erano distinti nelle rappresaglie contro i fedeli alla corona britannica, bruciando le loro fattorie, prendendo ostaggi, senza risparmiare civili, donne e bambini. Mancavano solo gli attentatori suicidi. Le scorrerie si trasformarono in una lunga spirale di vendette e controvendette tra bande rivali di «irregolari», milizie contrapposte, senza esclusione di atrocità da una parte e dall’ altra. Finché gli andò storto un raid punitivo contro un capitano della milizia, un duro, che aveva sposato una vedova ebrea. La sua banda di «terroristi» incontrò una resistenza inaspettata, Tye rimase ferito al polso e morì poco per infezione tetanica. Ma la vicenda di questa specie di Al-Zarqawi della rivoluzione americana non finì lì. Il capitano che lo aveva ferito fu ammazzato da un’ altra banda di guerriglieri filo-britannici. Il generale Washington minacciò di impiccare per rappresaglia un giovane ufficiale britannico prigioniero se non avessero consegnato alla giustizia i responsabili dell’ attentato al capitano. La vicenda, nota come «l’ affaire Asgill» (dal nome dell’ ostaggio in mano agli americani) fece enorme scalpore in tutta Europa, non giovò all’ immagine degli americani. Molti dei neri che combattevano per i britannici furono decimati dall’ epidemia di vaiolo (a differenza delle truppe bianche non erano vaccinati). Non si esitò a usarli come arma batteriologica, disseminando apposta i malati nelle piantagioni di proprietà dei «ribelli» americani, così come anni prima i britannici avevano fatto durante le guerre indiane distribuendo coperte infette. Ma il peggio li aspettava quando i britannici furono sconfitti e dovettero andarsene. Uno dei punti più controversi nei negoziati per l’ armistizio era che fare degli schiavi fuggiaschi cui i britannici avevano promesso la libertà e che invece i patrioti americani consideravano traditori e, comunque, proprietà da recuperare. Un gran numero di neri, migliaia di uomini, donne e bambini, avevano trovato rifugio nella New York occupata dai britannici. Sono atterriti dalla prospettiva che gli inglesi li abbandonino alla loro sorte, rinnegando le promesse, e consentendo che i loro padroni di un tempo li vengano a riprendere. «La pace ripristinata tra America e Gran Bretagna, ha diffuso gioia tra tutte le parti, tranne noi, che avevamo fuggito la schiavitù e avevamo cercato rifugio nell’ esercito inglese; perché prevaleva a New York la voce che tutti gli schiavi sarebbero stati consegnati ai loro padroni, benché alcuni fossero stati liberi ormai per anni tra gli inglesi. Queste voci ci riempivano di indicibile angoscia e terrore», dice il diario di uno dei fuggiaschi, Bolton King. Senza contare che è ancora fresca la memoria di quanto era accaduto qualche decennio prima, nel 1741, quando un incendio - probabilmente accidentale - aveva quasi distrutto la città, e un giudice in cerca di popolarità e desideroso di farsi fama da duro, aveva denunciato una cospirazione terroristica di negri, e montato un processo, con tanto di confessioni estorte con la tortura, conclusosi con 17 schiavi e 4 bianchi impiccati, altri 13 schiavi bruciati sul rogo, malgrado continuassero a sostenere fino all’ ultimo di essere del tutto innocenti. Alcune delle pagine più suggestive del libro di Schama sono dedicate alla discussione che nel maggio 1873 ebbe luogo, su questo argomento, tra un George Washington inflessibile nel pretendere che gli inglesi non portassero via «proprietà degli americani», cioè gli schiavi, e il rappresentante della Corona, Sir Guy Carleton, esterrefatto da tanta intransigenza. Alla fine ne avrebbero imbarcati molti con sé (non tutti, ai disperati non autorizzati che si aggrappavano alle barche furono mozzate le dita). Ma per andare a mendicare o morire di stenti in Inghilterra, in Nuova Scozia, o in Sierra Leone. Il proclama di Lord Dumore era certo strumentale, gli inglesi avevano disperato bisogno di soldati. Non si fidarono mai dei neri. Ma sta di fatto che, a fine `700, il faro mondiale per la liberazione degli schiavi era l’ Inghilterra del «re tiranno» Giorgio III, non la nascente democrazia americana di George Washington. «La loro era una rivoluzione volta, prima di tutto e soprattutto, a proteggere lo schiavismo», il modo lapidario in cui la mette Schama. Ci sarebbe voluta un’ altra, ancor più sanguinosa guerra civile per trasformarla in qualcos’ altro. La logica per cui George Washington tacciava gli inglesi che volevano liberare gli schiavi come «arci-traditori dei diritti dell’ uomo», e i patrioti che volevano tenerli in schiavitù come «eroi della libertà» sarebbe stata convalidata solo molto a posteriori. Nel 1775 era più convincente l’ inglese Samuel Johnson, che si chiedeva con feroce ironia: «Com’ è che a gridare più forte per la libertà sono proprio coloro che incatenano i negri?». Siegmund Ginzberg