CorrierEconomia 05/06/2006, pag.31 Dario Di Vico, 5 giugno 2006
«Non ho mai capito di che golpe parlasse Cuccia». CorrierEconomia 5 giugno 2006. Quest’ intervista-documento è il frutto di lunghi colloqui con Eugenio Cefis avvenuti tra Lugano e Milano nell’ autunno del 2002
«Non ho mai capito di che golpe parlasse Cuccia». CorrierEconomia 5 giugno 2006. Quest’ intervista-documento è il frutto di lunghi colloqui con Eugenio Cefis avvenuti tra Lugano e Milano nell’ autunno del 2002. La prima tranche, riferita agli anni di Mattei, è uscita sul Corriere della Sera il 6 e il 7 dicembre 2002. La seconda tranche, quella che abbraccia i ricordi di Cefis dagli anni della Montedison fino ai giorni nostri, per espressa volontà dell’ anziano manager, sarebbe dovuta uscire postuma. Così è stato: Cefis è scomparso a Lugano alla fine di maggio del 2004 e a due anni di distanza abbiamo iniziato, lunedì scorso, a pubblicare il testo da lui rivisto. Ai colloqui ha sempre assistito un ex dirigente Eni e grande amico di Cefis, Camillo D’ Amelio, che oggi risiede a Milano. *** Domanda. Nelle sue memorie l’ agente di cambio Aldo Ravelli sostiene che lei lasciò la ribalta perché temeva di essere arrestato. Risposta. «Le rispondo che durante il periodo partigiano ho temuto molte volte di essere arrestato... Non solo, ma anche di essere fucilato. Allora, almeno per quelli della mia età, esisteva il solo partito fascista prima e fascista Repubblicano poi. Ero in Jugoslavia a combattere Tito, come ufficiale del secondo Granatieri di Sardegna ed avevo un attendente di oltre 40 anni. Da lui per la prima volta sentii dire "sono comunista". Per noi la politica non esisteva. Oggi non è più così. Comunque mi ritengo una persona aperta alle idee degli altri, non sono una persona sempre sicura di essere il depositario della verità rivelate. Una personalità assai diversa da come mi pare sia stata raccontata. Finita la guerra feci praticantato dall’ avvocato Rolle che usava raccomandarmi: "Cefis se hai cinque lire compra cinque lire di fiducia in te stesso"». D. Cuccia non prese bene la sua decisione di lasciare. R. «Stette zitto un mese o due. Poi venne a trovarmi nel mio studio privato a Milano e me ne disse di cotte e di crude. Che l’ avevo lasciato solo come un birillo tra le bocce. Replicai "ma che senso ha insistere in una battaglia se la si è già persa? una stupidaggine". Come sosteneva von Clausewitz...». D. Si racconta che Cuccia avesse detto "pensavo che Cefis facesse il golpe e invece se n’ è andato". R. «Venne a dirlo anche a me e io gli risposi "ma lei è matto". Quando e come le ha dato la sensazione che stessi preparando un colpo di Stato? A quanti andavano facendo in Italia discorsi vagamente autoritari io replicavo di togliersi dalla testa che da noi ci potesse essere un golpe appoggiato dall’ esercito. un paese lungo dalle Alpi alla Sicilia e le poche divisioni efficienti che avevamo erano tutte su, ai confini con la Jugoslavia. Ci sarebbero volute quattro-cinque settimane per concentrarle tutte al Nord, se ne sarebbero accorti tutti. Sono cose da operetta». D. Ma lei si è dato una risposta: come mai Cuccia la pensava così? R. «Forse pensava a un golpe non militare. Nemmeno Mussolini era riuscito a neutralizzare, l’ establishment laico-massonico italiano, che per un lungo periodo aveva retto le fila della finanza. Forse Cuccia pensava che potessi fare qualcosa di equivalente in campo imprenditoriale. Tenga presente che lui era stato fuorviato dall’ aver visto in Africa muoversi l’ Eni, con autorità e successo. Risultato: Cuccia mi ha detto che l’ avevo tradito. Mattei mi avevo detto lo stesso quando ero andato via dall’ Eni, "è come se mi avessero tagliato il braccio destro" affermò». D. In cambio dell’ appoggio che Mediobanca le aveva dato per entrare in Montedison lei cedette il pacco di azioni Generali che era in portafoglio a Foro Buonaparte. Nacque così l’ Euralux, la società lussemburghese decisiva per tenere il Leone di Trieste sotto il controllo dell’ asse Generali-Lazard. Andò proprio così? R. (Cefis chiamò la segretaria e sfogliò una cartellina con stampigliata la parola Euralux. Lesse gli appunti a mano di Enrico Cuccia). «Si andò così. Ma facemmo tutto per bene, qui ho ancora l’ autorizzazione del ministero del Commercio estero e del Governatore della Banca d’ Italia». D. Si è pentito di aver lasciato a 56 anni, un caso più unico che raro? R. «No, avrei dovuto farlo cinque anni prima. Appena messa a posto la Montedison dovevo tornarmene a casa. Mi ero fatto incastrare dal mio senso del dovere. Avevo deciso da tempo di non occuparmi di aziende conto terzi oltre i 50 anni. Cuccia, Mattioli, Merzagora che mi ripetevano fino alla noia "hai messo a posto l’ Eni, ora perché non ti occupi per cinque-sei anni alla Montedison? C’ è il rischio di bancarotta, e Milano senza la Montedison è morta". Ma io non avevo alcun interesse e voglia di farlo». D. vero che lei dopo essere uscito dalla Montedison consigliò a Cuccia di puntare su Carlo De Benedetti? R. «Sì, era una persona che stimavo. Avevo visto come si era mosso, aveva una marcia in più. Feci il suo nome a Cuccia. Del resto noi come Eni avevamo avuto sempre buoni rapporti con l’ Olivetti, fin dai tempi di Adriano. E De Benedetti "busciava", si faceva sentire. Poi si vende bene». D. Ci racconta i suoi rapporti con i Rizzoli? R. «Ero amico del vecchio Angelo Rizzoli. Lui aveva comprato mezza Ischia e io ero solito fare i fanghi a Lacco Ameno. Lui veniva lì e mi rovinava i nove giorni di cura. Voleva che gli vendessi Il Giorno. Segni me l’ ha promesso, diceva. E io gli rispondevo: "Non posso vendertelo, me lo impediscono tutti i politici messi insieme". Con me il quotidiano milanese era neutrale, in mano a un privato chissà. Davo al mondo politico garanzie di imparzialità. Segni mi diceva sempre "fai quello che vuoi, ma Il Giorno non lo vendere mai". Poi c’ era Italo Pietra alla direzione e per me sostenerlo era un’ obbligazione morale». D. Lei poi aiutò Rizzoli figlio a comprare il Corriere della Sera. E in cambio chiese di cambiare il direttore di allora, Ottone. R. «Ho garantito per Angelo, ma non è vero che abbia avuto problemi con Ottone. E non mi pare che lui ce l’ abbia con me, a leggere i suoi libri. Quanto al Corriere ricordo di aver mollato i contatti successivamente e comunque dei problemi con la stampa per me se ne occupava Pietra». D. Ha conosciuto Gelli? R. «L’ ho visto una sola volta su richiesta di qualche ministro... Ero presidente di Montedison. Mi fece una tale impressione negativa che quando, dopo averlo incontrato, sono tornato nel mio ufficio di Roma telefonai subito a chi me lo aveva raccomandato e gli dissi di averlo trovato mellifluo. Allora parlar male di Gelli era peggio che parlar male di Garibaldi cento anni prima...». D. Che giudizio ha maturato nel tempo sul suo successore Mario Schimberni? R. «Positivo. Un vero "sedere di pietra". Se non ricordo male l’ ho portato io in Montedison... Fu Imbriani Longo che allora faceva il commissario della Bpd a segnalarmi Schimberni e Cesare Romiti, disse "qui da me ci sono due cavallini di razza". Schimberni aveva il senso della gerarchia, bravissimo nella gestione finanziaria e amministrativa. Il suo progetto di realizzare con Montedison una public company è stato il suo disastro. Una volta gli dissi "Schimberni lei è andato fuori di testa". Perse il senso del limite quando tentò di comprare azioni proprie. Aveva tenuto stretto il rapporto con Cuccia poi ha pensato di rendersi indipendente». D. Quali altri presidenti dell’ Eni ha conosciuto? R. «Gabriele Cagliari era il mio assistente all’ Anic di Ravenna. Faceva parte di quella covata di dirigenti che venivano chiamati "la legione straniera" per distinguerli dai primi corsisti di Mattei, "i soci fondatori". Avrebbe potuto far bene all’ Eni se le circostanze tragiche non avessero interrotto la sua presidenza». D. Abbiamo parlato di partecipazioni statali. Che giudizio ha di un manager che ne ha calcato le scene per anni, Romano Prodi? R. «Lo conosco poco. Come consulente per i problemi economici e finanziari è forse il numero uno in Italia e in Europa. Come capo operativo di un’ impresa è tutto da vedere. Come politico mi pare che sia un uomo di centro». D. Oggi lei è molto ricco? R. «Faccia i conti lei. Pago un milione di franchi svizzeri l’ anno di tasse e qui in Svizzera bisogna dichiarare sia il reddito sia il patrimonio, non si scappa. Possiedo delle piccole aziende, una che opera nel campo del controllo satellitare. Nel Nord America e in Canada ho venduto tutto da molto tempo. E poi sono un azionista della Finarte cui tengo molto. Sono stato uno dei fondatori insieme ai Manusardi». D. Volgendo lo sguardo indietro alle grandi battaglie che hanno diviso il capitalismo italiano alla fine chi ha vinto secondo lei? R. «Hanno perso tutti, pure gli Agnelli hanno perso. Se avessero venduto la Fiat quaranta anni fa si sarebbero goduti tanti soldi. L’ Italia è un paese in declino. Viene da dire che la situazione è tragica ma non seria. Quando vedo che Forza Italia è al potere con il voto quasi plebiscitario degli elettori, vuol dire che agli italiani sta bene così. Mi domando che razza di Paese sia l’ Italia di oggi». D. In Italia in questo momento l’ espressione «declino» è molto usata. R. «Perché non è così? Il Paese sta proprio declinando. Devo dire che lo avevo previsto con largo anticipo... Davano a me del gaullista, ma come poteva andare avanti un’ azienda Italia con governi che duravano in media otto mesi e il tutto nell’ anticamera della globalizzazione». D. Lei ha avuto sempre scarsa considerazione degli industriali privati italiani. R. «Non di tutti. Agnelli mi è stato sempre simpatico. Da giovane quando arrivava con il bimotore inglese, la colombina, guidavo un po’ io un po’ lui. Tra gli imprenditori privati c’ erano tanti Rovelli, tanti a cui il governo regalava i soldi bastava che tirassero su un muro di cinta». D. Non abbiamo avuto una classe dirigente all’ altezza, dunque? Fuori dalle frontiere patrie chi ammira? I Kohl, i Blair, gli Chirac? R. «Ho sempre ammirato la classe dirigente russa, tutte persone di grande livello. Il capo del loro settore petrolifero avrebbe potuto benissimo essere il numero uno alla Shell o alla Esso. La selezione dei dirigenti russi era serissima e devo sottolineare non ho mai trovato uno che si sia sporcato le mani. Le loro case assomigliavano ai nostri alloggi popolari. Ho avuto sempre grande rispetto di quel mondo. Breznev, mi piace ricordarlo, gradiva tutt’ al più in regalo un giubbotto da caccia e Kossighin, un grande amico dell’ Eni, mi aveva chiesto una foto di Mattei e gliene portai una - con la cornice d’ oro - che lui si è messo in bella evidenza sulla scrivania nel suo ufficio al ministero. E guardi se c’ è stata una sola persona, ai tempi della Resistenza, che ha sempre tenuto a differenziarsi dalle brigate comuniste, sono stato proprio io. Non può immaginare quante volte abbiamo fatto a botte con le brigate comuniste di Cino Moscatelli quando gli americani "sbagliavano zona" dei loro lanci aerei. "Loro" portavano al collo il fazzoletto rosso con la falce e il martello, noi quello blu con le mostrine tricolori e le stellette militari. Comunque a conclusione di questa chiacchierata mi faccia dire che chi non ha visto l’ Italia di prima del 25 aprile non potrà mai capire cosa è stato Mattei. Allora non c’ era un ponte in piedi in tutta l’ Italia del nord, non una stazione ferroviaria di una certa importanza era ancora intatta. Il centro di Milano ridotto a un ammasso di rovine. E se il "miracolo italiano", come allora fu chiamata la rapidissima ricostruzione del Paese, fu reso possibile, nell’ Italia del nord anche dalla rapida rete dei metanodotti realizzata da Mattei per la distribuzione capillare dell’ energia». D. Posso chiederle per chi ha votato alle ultime politiche? R. «Ho votato per il centro. Seguo con interesse Casini: matura bene, voterei lui. Ad Arolo invece voterei per l’ amministrazione di sinistra che ha ben governato. Comunque si può dire tutto della Dc, ma senza lo scudocrociato saremmo diventati tutti comunisti, ma non quelli di oggi quelli ante Muro». (Fine) Dario Di Vico