CorrierEconomia 29/05/2006, pag.8 Dario Di Vico, 29 maggio 2006
«Fu Cuccia a insistere: perché non compra azioni Montedison?». CorrierEconomia 29 maggio 2006. Il racconto di Cefis sui rapporti con Valerio e Girotti «In Foro Bonaparte facevamo trading su tutto» MemorieLa prima repubblica Domanda
«Fu Cuccia a insistere: perché non compra azioni Montedison?». CorrierEconomia 29 maggio 2006. Il racconto di Cefis sui rapporti con Valerio e Girotti «In Foro Bonaparte facevamo trading su tutto» MemorieLa prima repubblica Domanda. Negli anni sono stati scritti diversi libri sulle sue gesta. Ha avuto modo di leggerli? Risposta. «Guardi, io andavo in hotel all’ Eden se a Roma o a casa di Mattei a Milano alle 7 di mattina e stavo lì fino circa alle 8,30. Poi lui andava in ufficio, leggeva la rassegna stampa e regolarmente si irritava di brutto. Come conseguenza non gli si poteva parlare più di lavoro per un bel po’ di tempo. Conclusi allora che bisognava evitare in ogni modo di farsi condizionare nei comportamenti dando troppo spazio ai giudizi e alle osservazioni degli altri, soprattutto se espressi dai giornali quotidiani. Per cui ho in libreria una cinquantina di libri che parlano di me, ma non ne ho letto nessuno. Non mi faccio influenzare. Sono rimasto del parere che non si può fare il presidente di una grande compagnia in modo sereno e rilassato se si sta a leggere la rassegna stampa come prima cosa, prima di mettersi al lavoro. Del resto, da giovanissimo, Mattioli mi raccomandava: "Non ti far incastrare, quello che leggi sui quotidiani vale di solito 24 ore"». D. Lei quei libri non li avrà letti direttamente ma qualcuno le avrà riferito cosa c’ è scritto... R. «Non ho mai amato i giornalisti che ho sempre chiamato"pennivendoli". In Eni noi ci eravamo fatti fare da un giurista, il professor Delitala, uno schema di delibera di consiglio, una paginetta e mezzo che delegava al presidente i poteri per stabilire ed erogare fra le spese varie quelle per la pubblicità commerciale e per la così definita "pubblicità redazionale" e in questo modo potevamo liquidare le fatture dei giornalisti, ma era tutto in chiaro e ben regolamentato. Mattei pensava che fosse meglio "comprare" i giornalisti che non "mantenere i giornali", riteneva così di poter risparmiare. Io non ho mai condiviso questa tesi e ho fatto il contrario. I giornalisti ti usano come una tartaruga, ti fanno mangiare una polpetta con dentro un gancio e poi tirano. Persino Agnelli ogni tanto ha avuto articoli con tanto di calci negli stinchi. Quando presi il posto di Mattei chiusi i finanziamenti per sei mesi». D. In questi lunghi anni ha mai pensato che la scalata alla Montedison fosse stato un errore? R. «Mi scusi, ma che domanda è? Il ciclo è quello petrolchimico, né solo petrolifero né solo chimico o lo si completa in tutto il suo arco o si rinuncia a estrarre il valore che ha. Se tratti solo la benzina, il gasolio e l’ olio combustibile e non controlli l’ intera catena dall’ esplorazione alla pompa di benzina non riesci a tirar fuori da quel business tutto il grasso, il valore che può produrre. Fu Cuccia a insistere: "Perché non compra azioni Montedison?". La gestione Valerio gli aveva creato dei problemi. Personalmente ho sempre sostenuto che non c’ era motivo perché Eni e Montedison dovessero litigare. Finché in Foro Buonaparte c’ erano Faina e Giustiniani il discorso fu portato avanti. Con Valerio si interruppe. Pensi che in una fase di conflitto aveva cominciato addirittura a costruire una rete di stazioni di servizio carburanti». D. Valerio però è ricordato come una delle vittime della sua ascesa. R. «Valerio aveva un difetto tipico degli ingegneri, pensare che due più due fa sempre quattro. Nella vita non è sempre così. Faina era più pragmatico. Comunque le rivelerò un fatto importante: mentre tutti credevano che Valerio ed io ci facessimo la guerra, noi siglammo un accordo che era depositato presso il senatore Nencioni. Io penso che tutte le volte che tra competitori si possono fare delle intese, senza stravolgere le regole della concorrenza, si evita di buttar soldi. Fare delle guerre inutili o perse in partenza è una sciocchezza. Uno dei miei autori preferiti, von Clausewitz, lo spiega benissimo. Detto questo con Valerio gli scontri ci sono stati. Era sprezzante, aveva il piacere di essere sgradevole e litigare per lui era uno modo per imporsi». D. Ma lei non aveva criticato Mattei per le avventure chimiche? R. «Quella di Mattei era chimica politico-occupazionale, tutta un’ altra cosa». D. Quando prese le redini della Montedison lei cercò di entrare nella chimica fine e contenere il peso della petrolchimica. R. «Operazione facile da dire, difficile da fare. Io l’ ho perseguita nel limite del possibile. Altro atteggiamento aveva Rovelli. Non gli importava di detenere il controllo dei processi, si limitava a copiare i brevetti degli altri. Comunque le dirò che per quanto mi abbia avversato ho trovato sempre difficile litigare con lui. Anzi non ci sono riuscito. Tornando alla chimica i laboratori Eni a San Donato erano avanzati, io ho tentato di fare delle cose interessanti ma i processi sono lenti. Non dimentichi che l’ Italia in chimica era zero. Nei cassetti e nelle casseforti della Bayer c’ erano brevetti che sarebbero stati usati anni dopo. Un brevetto lo sfruttavano al massimo e solo dopo ne tiravano fuori uno nuovo». D. Una delle persone che ha lavorato più a lungo con lei fu Raffaele Girotti. Un rapporto che alla fine si guastò tanto che si narra che Girotti avesse tentato addirittura di scalare la Montedison. R. «Fu io a porre come condizione al mio passaggio in Montedison che fosse Girotti a prendere il mio posto in Eni, era stato uno dei fondatori. Prima ancora lo aveva mandato in Montedison come vicepresidente operativo. Insomma abbiamo viaggiato in tandem per tantissimi anni, poi per motivi che non conosco il rapporto si è incrinato». D. Durante la sua presidenza Montedison ci fu lo shock petrolifero che sconvolse i prezzi e rese più difficile ogni operazione di rinnovamento della chimica. Determinò anche la sua uscita? R. «Sicuramente fu una tempesta che ci prese a metà del guado. Ma eravamo abituati alle battaglie e non ho perso il sonno nemmeno in quella occasione. Non c’ è nessuna relazione tra gli effetti nefasti dello shock petrolifero e la mia uscita dalla Montedison. Ero stufo di amministrare le cose degli altri». D. Negli anni della sua gestione la Montedison si caratterizzò per l’ innovazione finanziaria a tutto campo. R. «Per merito di Giorgio Corsi si affermò una mentalità Montedison di fare finanza. Gli utili venivano da questa gestione e non da quella industriale. Era un’ operazione tutta cerebrale. Facevamo trading su tutto, dalle valute all’ oro fino alle merci. Lo facevamo per suddividere il rischio. I primi dividendi li pagammo così, con le operazioni finanziarie». D. Che giudizio ha maturato in questi anni sul processo di privatizzazioni che ha investito le Partecipazioni Statali negli ultimi due lustri? R. «Le confesso che ho seguito poco tutta la vicenda delle privatizzazioni. Penso che lo Stato faccia bene a intervenire in settori i cui investimenti presentano tempi di rientro lunghissimi. Vedi i porti, le infrastrutture. In questi casi il rischio per il privato è troppo alto perché si trovi qualcuno disposto a correrlo. Il Brill, il lucido per scarpe oppure l’ industrializzazione leggera della Sardegna invece non dovrebbero competere allo Stato. Ci sono stati investimenti al Sud coperti dall’ 85% da sovvenzioni erogate cash e concesse dopo il solo parere di conformità. Mi ricordo che per la lana di vetro c’ era un fabbisogno italiano di 10 mila tonnellate l’ anno circa e furono concessi finanziamenti a diversi investitori che complessivamente ne avrebbero prodotti 30 mila o più. Comunque a mio parere il potere politico hanno sempre faticato nel prendere le decisioni giuste per rispettare un serio sviluppo industriale del Paese». D. Può fare un esempio? R. «Più che un esempio, le racconterò un caso-limite. Avevamo un impianto a Ravenna e ci eravamo andati perché c’ era il metano a due passi nel sottosuolo. Il politico numero uno di Ravenna era allora l’ onorevole Benigno Zaccagnini, che in quel frangente era anche ministro dei Lavori Pubblici. A noi serviva di dragare il canale navigabile già esistente, renderlo percorribile anche per navi da 10 mila tonnellate. Tenga presente che per quella zona si trattava di un’ opportunità di sviluppo, altrimenti l’ economia locale sarebbe agricoltura da palude. Vado da Zaccagnini per chiedergli i permessi e lui mi risponde "come faccio ad autorizzare un lavoro proprio nella mia zona elettorale?". Gli rispondo che non potevamo utilizzare in eterno le bettoline per caricare fertilizzanti, portarli nel porto di Marghera, trasferirli su navi da carico di almeno 10 mila tonnellate e farli viaggiare con un costo economico proibitivo fino ai lontani porti della Cina. Non se ne fece niente. E allora mi viene da dire che è meglio un ministro che chiede sovvenzioni ma realizza il canale, di uno che fa quei ragionamenti. Se la pensa così eviti di fare il ministro dei Lavori Pubblici». D. E di Amintore Fanfani, il politico che le fu più vicino, che ricordo ha? R. «Se mi permette una battuta era una persona che valeva tanto oro quanto ne pesava. Quando uno usciva da un colloquio con Fanfani sapeva esattamente cosa volesse in termini operativi, con Moro sicuramente no. Per lungo tempo è stato il mio azionista di riferimento anche se i nostri rapporti, visto il suo carattere, non sono stati sempre rose e fiori. Era più che sveglio, ti faceva capire subito come la pensava. Comunque di lui ho un ricordo piacevole. Ho avuto con lui relazioni dialettiche e costruttive,considerava noi dell’ Eni i figli discoli delle Partecipazioni Statali. Quando si parlava con Fanfani di politica estera dell’ Eni, specie di iniziative nel Terzo Mondo, lo si pettinava dal "verso del pelo"». D. Con Andreotti invece lei non è mai andato d’ accordo anche perché rappresentava il retroterra politico di Rovelli. R. «Una volta gliel’ ho detto anche a lui il perché. Quanto a Rovelli tutto il mondo politico era il suo retroterra. Avevamo ministri e uomini politici che guardavano i nostri concorrenti privati con benevolenza e tutto ciò mi dava fastidio. Il processo Imi-Sir ne fornisce un esempio». D. Si è sempre detto che lei coltivasse progetti autoritari, neo-gollisti. Cosa c’ era di vero? R. «Erano giudizi che mi sono stati affibbiati da una propaganda che una volta si usava definire "falsa e tendenziosa" e che comunque, in realtà, erano radicalmente differenti dalle cose che pensavo e che ho fatto. Il motto del nostro raggruppamento partigiani Alfredo Di Dio era "Patria e libertà". Posso dire per altro che ho chiesto a tanti miei partigiani di rischiare la vita per una Repubblica democratica. Bene, se avessi saputo che la Repubblica sperata era quella di oggi, francamente mi sarei astenuto dal farlo. I migliori tra quelli che ho conosciuto sono stati sicuramente i comunisti, mi riferisco alla generazione dei Luigi Longo e degli Amendola». (Continua) Dario Di Vico