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 2006  luglio 06 Giovedì calendario

Elkann che abbaia non morde. Panorama 6 luglio 2006. Per aver successo un blitz deve essere preparato nei dettagli, possibilmente rispondere a un piano credibile

Elkann che abbaia non morde. Panorama 6 luglio 2006. Per aver successo un blitz deve essere preparato nei dettagli, possibilmente rispondere a un piano credibile. Altrimenti meglio rinviare a tempi migliori, pena la brutta figura. Più o meno come quella che è toccata a John Elkann costretto, nel giro di due giorni, a tornare precipitosamente sui suoi passi. La cronaca: martedì 27 giugno i giornali danno ampio risalto a due gagliarde uscite dell’erede di casa Agnelli, una su Time e l’altra sul Wall Street Journal. Tra orgogliose rivendicazioni sulla bontà del capitalismo familiare e sul rispetto che nasce dall’autorevolezza e non dal lignaggio, John avvisa Luca di Montezemolo che è arrivata la sua ora. Non lo dice direttamente, ma lo evoca al punto tale da indurre i due giornali all’identico pronunciamento: l’interregno del manager targato Ferrari alla guida della Fiat è finito e colui che l’Avvocato indicò in tempi oramai lontani come suo legittimo erede sta per prendersi il timone. Non passano 24 ore, e arriva il precipitoso dietrofront: «Ipotesi prematura» dice John, quasi chiedendo scusa di tanto clamore. E sull’episodio, come non fosse successo nulla, cala il sipario. Così come al solito la vera storia bisogna andarsela a leggere su Dagospia che non lesina i dettagli: sarebbe stato Gianluigi Gabetti, l’ottuagenario custode dell’ortodossia agnelliana, a indurre il primogenito Elkann alla sortita. Gabetti (che per problemi suoi vuol chiudere con Torino, l’aveva già fatto una prima volta ma il precipitare degli eventi lo aveva costretto a un inopinato rientro) vede nell’insediamento del nipote prediletto di Giovanni Agnelli il coronamento di una promessa fatta all’Avvocato sul letto di morte. Ma se l’intento era legittimo, grossolanamente sbagliata è stata l’esecuzione, per almeno tre motivi. Il primo: la famiglia, nonostante le reiterate dichiarazioni di unità, è troppo divisa per poter accettare l’insediamento di John sulla poltrona che fu di suo nonno. Secondo: è poco plausibile che un ragazzo schivo, riservato, con una spiccata ritrosia a esporsi pubblicamente tanto da necessitare della ferrea blindatura degli uffici stampa, di punto in bianco si metta a discettare di passato e futuro scegliendo le luci della ribalta internazionale, i cui riflessi arrivano tradizionalmente enfatizzati sulla angusta scena domestica. Terzo: Gabetti ha sbagliato cavallo. Se voleva indurre Montezemolo a togliere il disturbo, doveva puntare non sul timido Jaki ma su Sergio Marchionne. Magari contando sul fatto che l’amministratore delegato della Fiat, il quale dopo l’improbo lavoro di risanamento al Lingotto la fa da padrone, ha da qualche tempo messo nel mirino il suo presidente. Non che gli dia fastidio, tantomeno che gli faccia ombra, ma più prosaicamente, da uomo di finanza, perché ai suoi occhi è diventato un costo da abbattere. Oneroso, troppo oneroso anche a fronte di un ruolo di rappresentanza che indubbiamente Montezemolo esercita con l’abilità che tutti gli riconoscono. Ora che la Fiat ha ripreso a marciare, e dopo che Montezemolo l’ha traghettata in acque più tranquille dopo il difficile momento seguito alla morte di Umberto Agnelli, il presidente della Confindustria ha esaurito il suo compito. Lo stesso Marchionne gliel’ha fatto capire senza mezzi termini quando ha condotto le danze sull’eventuale riacquisto della quota Ferrari in mano alla Mediobanca. Ai tempi di Paolo Fresco e dello scomparso (in senso figurato) Giuseppe Morchio, se solo qualcuno che non fosse Montezemolo si azzardava a intromettersi nelle questioni riguardanti il Cavallino, veniva giù l’inferno. Adesso il corteggiatissimo Marchionne – lo vuole anche la General Motors – si lancia in ardite incursioni nel territorio di cui il suo presidente è stato per anni il tenutario esclusivo. Un brutto segnale, ben più delle avvisaglie che gli ha mandato d’oltralpe l’erede designato. Se tutto questo poi accade mentre la sua presidenza della Confindustria è sotto schiaffo, non solo da parte della malmostosa pancia dell’organizzazione che a Vicenza e a Varese ha fatto sentire i suoi brontolii, ma anche da molti di coloro che ne sponsorizzarono la nomina, il quadro è poco rassicurante. Se fossi il suo addetto stampa, consiglierei a Montezemolo un cambio di strategia: si defili per un po’, magari complice l’estate, e cessi di inondare i giornali con quotidiani comunicati che enfatizzano ogni suo minimo starnuto. Evangelicamente, c’è un tempo e un tempo: uno per apparire, un altro per sparire. Visti gli eventi, è l’ora del secondo. Paolo Madron