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 2006  giugno 29 Giovedì calendario

Libero 29 giugno 2006. Caro Bossi, sciolga la Lega. Lo so che non lo farà mai. Ma sarebbe la cosa migliore, dopo il referendum

Libero 29 giugno 2006. Caro Bossi, sciolga la Lega. Lo so che non lo farà mai. Ma sarebbe la cosa migliore, dopo il referendum. I partiti politici non sono ”per sempre”. Soprattutto quelli che, come la Lega, nascono per perseguire un unico obiettivo. Il federalismo, poi mutato in secessione, poi involuto in devolution. Bersaglio mancato, a quasi vent’anni dall’atterraggio in Parlamento. La spinta della Lega è ormai solo inerziale. Il suo radicamento sul territorio sta svaporando, persino nelle roccaforti. L’Umberto è un uomo malato, cui le circostanze e gli affetti dovrebbero consigliare di mollare la presa. Invece no. Alcune settimane fa ha rilasciato un’intervista devastante, nella quale con una battuta smontava il cosiddetto ”Ducario”. Cos’è? Un progetto sorto all’interno del partito, senza velleità scissioniste, per ripulirne gli armadi. Facendo chiarezza sul buco nero di Credieuro Nord (la Parmalat leghista), cercando un rinnovamento dei quadri. «Non sono leghisti», ha detto il Senatur, sparando su Gilberto Oneto, che dell’indipendenza padana è l’ideologo, e su Mimmo Pagliarini, uno dei volti più amati dalla base. L’aziendina dell’Umberto. La storia è vecchia: dall’interno, la Lega non si cambia. E’ stata gestita, in questi anni, secondo i peggiori usi del capitalismo familiare. Paradossalmente: all’italiana. Aziendina di medie dimensioni, Bossi l’ha creata, l’ha avviata, l’ha fatta crescere, ma solo fino ad un certo punto. Si è consciamente sbarrato la via, per più grandi balzi in avanti: tra il trasformarla in un grande soggetto politico, e mantenere il più stretto controllo sulla sua creatura, ha scelto la seconda strada. L’elettorato leghista, infatti, è composto da uno zoccolo duro, quelli che a Bossi sacrificano le figlie, più dei voti volatili, raccolti a seconda del linguaggio adoperato in un determinato momento. Due esempi. La Lega post-secessionista è stata il megafono italiano dei serbi, contro la secessione del Kossovo. Roba da matti: volevano l’Italia divisa ma la Jugoslavia unita. Più di recente, il movimento, abbandonato il culto del dio Eridanio, si è convertito al cattolicesimo tradizionalista. Pensavano di raccattare qualche voto ”bianco”, improvvisandosi baciapile in bilico fra Ruini e Lefebvre. Idea demenziale, e non solo perché il Senatur non è precisamente un monaco benedettino. I cattolici che votano ”da cattolici” guardano altrove, e alla fine questa farsesca ossessione per pacs e famiglia tradizionale che cosa ha portato? A Francesco Speroni, uomo che è il perfetto clichè del leghista della prima ora, che ieri sul Corriere sbotta: chissenefrega, meglio uno Stato federale col matrimonio gay, che un centralismo da bigottoni. Il dramma di questi anni è che la Lega è stata in piccolo ciò che la Cdl è stata in grande. Ondivaga e confusionaria nei suoi messaggi, ha pagato lo scotto di una monarchia senza vassalli. La selezione dei leader è stata fatta privilegiando le debolezze. Quanto meno facevi ombra al capo, tante più chances avevi di salire in grado. I colonnelli con un minimo di credito sono stati impallinati uno dopo l’altro. L’equazione leghista uguale bossiano è stata nell’immediato la forza del partito, significando l’estrema compattezza del gruppo dirigente. Ma nel lungo periodo, è la sua fine. Padania addio. Se la Lega dall’interno non si cambia, meglio scioglierla. I ceti che l’avevano eletta punto di riferimento ormai votano per Forza Italia, altra realtà pronta a sparire nel buio, al primo passo indietro di Berlusconi. Gli autonomisti sono ormai più fuori che dentro: scaricati a diverse stazioni dal padre padrone. La Padania è un sogno scolorito: solo Lombardia e Veneto hanno scelto il sì alla devolution. E’ di lì che bisogna ripartire. Da una Lombardia che è oggi l’unico posto in cui il centro-destra ha cartucce da sparare, anche a livello di possibili capi: Roberto Formigoni, anzitutto. C’è spazio per una forza lombarda che non sia anti-leghista, ma post-leghista (e, forse, post-berlusconiana). Un partito che guardi a Roma come al nemico, e voglia andarci con lo scopo di contrattare margini di libertà e con una priorità sola: i bisogni e le necessità della Lombardia e dei lombardi. Con l’ideologia light del federalismo finalmente articolata in un catalogo di concessioni da strappare al centro e alla sinistra con le unghie e con i denti. Gianfranco Miglio sperava che, una volta raggiunta la Grande Riforma, la Lega sarebbe potuta diventare il ”partito repubblicano della seconda repubblica”, custode dei nuovi principi costituzionali. La riforma che ha perso il referendum non era ”grande”. Non l’aveva scritta Miglio, ma Calderoli. Adesso che la Lega non è più la levatrice ma il tappo, di una maggiore libertà del Nord, tanto vale staccare la spina. Ogni tanto i partiti devono morire, perché le idee vivano. Alberto Mingardi