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 2006  giugno 29 Giovedì calendario

Giangiacomo Feltrinelli la solitudine di un ribelle Aldo Grandi ha scritto una monumentale e minuziosa storia della dinastia e dell’uomo come editore e come rivoluzionario Rimasto orfano di padre a soli dieci anni, ricevette un patrimonio assai cospicuo, insieme a un’educazione spartana

Giangiacomo Feltrinelli la solitudine di un ribelle Aldo Grandi ha scritto una monumentale e minuziosa storia della dinastia e dell’uomo come editore e come rivoluzionario Rimasto orfano di padre a soli dieci anni, ricevette un patrimonio assai cospicuo, insieme a un’educazione spartana. Nel ’45 si iscrisse al Pci e lo finanziò generosamente. Dieci anni dopo lasciò il partito e creò una casa editrice d’avanguardia che sarà in prima linea per la cultura e la politicaConosce Fidel Castro nel 1964 e fino alla morte guarda Cuba come un modelloLegata a lui è la scoperta di eccezionali best seller come il "Dottor Zivago" di Nello Ajello da la Repubblica, 24.3.2000 Con uno come lui, Sigmund Freud sarebbe andato a nozze. Sembrerà una constatazione ovvia, fatua o arbitraria. Ma è difficile respingerla, giunti all’ultima pagina del volume di Aldo Grandi dal titolo Giangiacomo Feltrinelli. La dinastia, il rivoluzionario (Baldini & Castoldi, pagg. 534, lire 34.000). L’autore esamina il suo personaggio con una minuzia tale da indurre nel lettore una sazietà quasi sgomenta. I precedenti familiari del biografato, la sua fragilità emotiva, la capacità di annusare nell’aria gli idoli del tempo sfiorano di volta in volta il romanzo, il trattato politologico, il saggio storico e l’indagine di costume. Rasentano la telenovela e il dramma. Grandi insegue, come trattenendo il fiato, una vita traboccante di stati d’animo. Il lettore la divide mentalmente in capitoli. Trattandosi di un giallo di cui è arcinoto l’epilogo, tanto vale partire dall’inizio. Il peso del cognome. Già da più d’un secolo, in Lombardia con significativi sconfinamenti nella vicina Austria e via via in tutta Europa, Feltrinelli era sinonimo di capitalismo trionfante. Una "dinastia", appunto. A spingerla verso i massimi fastigi è stato il padre di Giangiacomo, Carlo. Gli interessi dell’azienda non si esauriscono, ormai, nel settore del legname o dei tessuti. La Feltrinelli è al centro del sistema bancario. Sono circa trentasette le società al cui vertice Carlo Feltrinelli opera e "conta". E’ un uomo austero, riservato, quasi scontroso. Politicamente "afascista" (ma non al punto di danneggiare i propri interessi), è stato designato da Mussolini, nel 1924, a rappresentare l’Italia nel consiglio d’amministrazione della Reichsbank, la banca nazionale germanica; e non solo, certo, perché parla un fluente tedesco. La sua carriera non è esente da drammi. Nel 1918, ad esempio, è inquisito e arrestato per contrabbando a favore degli Imperi centrali. Poco prima di morire, Carlo Feltrinelli ha un alterco con Alberto Beneduce, presidente dell’Iri, troppo fascista per i suoi gusti. In definitiva, una persona ricca, abile e potente. Ma difficile. Vocata, per carattere e destino, alla solitudine. Un’ipotesi di suicidio, benché poco fondata, circonda la sua scomparsa. E’ il 1935. Carlo Feltrinelli aveva cinquantaquattro anni. Tra maggiordomi e bambinaie. Unico suo figlio maschio, a dieci anni Giangiacomo si trova, con sua sorella Antonella, erede virtuale di un patrimonio sconfinato. La madre, Gianna Elisa, di oltre un ventennio più giovane del marito, è una donna energica, nervosa, troppo distratta ed egocentrica (così la descrive Aldo Grandi) per esercitare i propri doveri verso i figli. A venticinque anni, durante una battuta di caccia, un proietile l’ha accidentalmente colpita in pieno volto. Per il resto della vita avrà un occhio di vetro: e ciò non contribuirà a rendere meno spigolosi i suoi modi. A Giangiacomo e Antonella, viene impartita un’educazione spartana. Non vanno a scuola. Gli insegnanti li istruiscono a domicilio, sia a Milano che nelle numerose ville che li ospitano in vacanza: da quella di Gargnano sul Garda a quella denominata "La Cacciarella" nell’Argentario, alle tenute in territorio austriaco. Bambinaie, camerieri in guanti gialli. Nessun incontro con i coetanei. Una madre e un patrigno. Verso sua madre, Giangiacomo matura quell’odio-amore che rientra negli schemi della psicoanalisi più corrente e proverbiale. Quando, nel ’40, Gianna Elisa sposa Luigi Barzini junior, la solitudine dei ragazzi, e di Giangiacomo in particolare, diventa riottosità. Si tinge di gelosia alla nascita delle figlie della nuova coppia: Ludina e Benedetta. Con il patrigno non mancano dissidi, scontri, animosità reciproche. Qualche tentativo di correzione o di punizione, da parte di Barzini, non farà che acuire, nel bambino Feltrinelli, una nativa predisposizione all’odio per l’autorità. Il piccolo partigiano. Giangiacomo legge molto Salgari. Bestemmia spesso. Conosce e frequenta alcuni operai e giardinieri che abitano nei pressi della "Cacciarella", dove i Barzini sono "sfollati" durante la guerra: "Così ebbe inizio il mio socialismo", ricorderà da adulto. Nel 1944 - ha ormai diciannove anni - scompare per alcuni giorni. S’è dato "alla macchia", unendosi a un gruppo di sbandati. Alla fine si rifugia in casa d’un fidato custode della villa: Barzini manda un cuoco di famiglia a rilevarlo. Stabilitosi a Roma con i familiari, dopo un breve soggiorno in Laterano (è di moda, all’epoca) matura il fugace proposito di "farsi frate trappista". Ma poi parte volontario con la divisione di fanteria "Legnano", aggregata alla Quinta Armata del generale Mark Clark. Una ribellione (la madre e il patrigno sono monarchici, amici di Umberto di Savoia), ma militarmente inquadrata. Il Pci, un secondo padre? Nel marzo del ’45, Giangiacomo si iscrive al partito di Togliatti, e lo finanzia con generosità. Togliatti, le volte che si incontrano, lo tratta con "benevolenza e curiosità". Nelle elezioni del 1948 Giangiacomo lavora per il Fronte popolare. Distribuisce l’Unità nelle strade. Con il Pci convivrà ancora dieci anni, durante i quali finirà più volte in prigione, per affissione clandestina di manifesti o (cosa più grave) con l’accusa di far parte d’una banda di ultrasinistra, progenitrice del terrorismo. Il complesso di Creso. E’ stato Paolo Sylos Labini a definire così la sindrome feltrinelliana. Nel seguire le traversie di Giangiacomo, quella definizione si riaffaccia prepotente. Giangiacomo non sa mai se i comunisti lo considerano un compagno vero o una vacca da mungere. Vive perciò la sua origine alto-borghese come un marchio indelebile. E avverte, a proprio danno, l’avversione sia del ceto d’origine che della "classe" cui vuole aderire. Il tormento di trovarsi in una posizione ambigua lo spingerà verso l’estremismo come prova di coerenza. Di tutto questo si avvertono i sintomi, ma la scelta vera si avrà più tardi. Editore e manager di cultura. Intanto, Feltrinelli offre alla cultura militante italiana uno spettacolo raro di energia, inventiva, disinvoltura cosmopolitica. Esemplare è l’attività di "bibliofilo ideologico" (la definizione è di Valerio Riva) da lui profusa nella Biblioteca, nella Fondazione e nell’ Istituto Feltrinelli per la storia del socialismo. Del tutto insolito è lo spirito imprenditoriale che lo guida nel fondare, nel 1955, la Giangiacomo Feltrinelli editore, e nel farne una realtà trainante per l’intera editoria italiana, e non solo. Basta pensare alla sua concezione dell’editoria stessa come un ciclo continuo, tra produzione, distribuzione e vendita. Alla scoperta di best seller internazionali del calibro del Dottor Zivago o di testi significativi e fortunati come il Gattopardo. Alla capacità di legare a sé nuclei di giovani intellettuali, come il "gruppo 63". Da Valerio Riva a Luciano Bianciardi, da Spagnol a Brega, da Filippini a Dossena, l’équipe di vertice della Feltinelli è quanto di meglio ci sia. Ma quale sinistra? I rapporti con il Pci sono compromessi: sia per l’atteggiamento assunto da Feltrinelli sui fatti d’Ungheria, sia per la pubblicazione del Dottor Zivago. E’ d’altronde nota l’allergia dell’editore a ogni tipo di condizionamento gregario. Le contraddizioni del suo carattere (generosità e avarizia, slanci affettivi che si alternano ad accessi d’ira) compongono, quanto meno, il ritratto d’un irregolare. Se non, come suggerisce Riva, di un "ciclotimico". Lo provano le testimonianze di almeno tre fra le sue mogli: Bianca Dalle Nogare, Alessandra De Stefani, Sibilla Melega. L’unica a non parlare, nel libro di Grandi, è Inge Schoental, la più affine al Feltrinelli editore e manager di cultura. E’ certamente lei a soffrire di più per la trasformazione di Feltrinelli da intellettuale a guerrigliero. I fantasmi del Terzo mondo. Feltrinelli conosce Fidel Castro nel 1964. Morirà nel 1972. Per otto anni Cuba e l’intero sub-continente americano in lotta contro gli Stati Uniti saranno la principale palestra ideologica sul cui modello l’editore misurerà le sue pulsioni rivoluzionarie. L’ultimo tratto della sua vita è abitato da spettri suggestivi quanto funesti. Il terzo mondo in lotta mortale contro il primo. L’idea fissa d’un golpe reazionario che incombe sull’Italia e sull’Europa. La fiducia ingenua di trasferire la guerriglia armata dalle Ande al Gennargentu o magari alla Sila. Per lui, la perdita di contatto con la realtà conosce, in estrema sintesi, tre stadi. Per cominciare, la disaffezione verso l’editoria. Poi il tentativo, fallito, di organizzare intorno a sé i nuclei sparsi del terrorismo nascente, diventandone il manager: non c’è gruppo della sinistra estrema in transito verso la lotta armata che non abbia ricevuto, e quasi sempre respinto, le sue profferte. Infine, a suggellare il disinganno, il gesto individuale. La sfida solitaria e disperata. L’ autoaffermazione sotto forma di suicidio o di olocausto. Martirio a Segrate. E’ durata tre anni, dal ’69 al ’72, la clandestinità di Giangiacomo. Una parentesi esistenziale riempita da fughe, peregrinazioni, travestimenti. Ricercato o meno che fosse dalla polizia italiana e dalle consorelle europee, il guerrigliero Feltrinelli si agitava in una sua personale casbah. Come in un film di Julien Duvivier prima maniera. Sempre sospinto da una Causa di cui sapeva ormai di essere l’ unico paladino e sacerdote. Valeva la pena la pena di immolarsi per tanto poco, saltando in aria a quarantasette anni, il 14 marzo del ’72, su un traliccio di Segrate nella speranza di far sprofondare Milano in un black-out improvviso? E’ giusto domandarselo. Ma a questo punto ci si deve fermare, perché l’ultima parola spetta alla pietà (Nello Ajello, la Repubblica 24/3/2000)