Il Messaggero 27/06/2006, Roberto Gervaso, 27 giugno 2006
Il re: figlio di chi? Il Messaggero 27 Giugno 2006.Signor Gervaso, tempo fa mi capitò di leggere un lungo articolo su Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia
Il re: figlio di chi? Il Messaggero 27 Giugno 2006.Signor Gervaso, tempo fa mi capitò di leggere un lungo articolo su Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia. Non so cosa ci fosse di vero ma, forse, qualcosa di vero c’era. L’autore dell’articolo riferiva una voce secondo la quale Vittorio Emanuele non era figlio di Carlo Alberto e di Maria Teresa, ma di un macellaio fiorentino. Era una voce fondata o diffusa da qualche denigratore del sovrano sabaudo? Anselmo Giorgino , Firenze. Fisicamente, Vittorio Emanuele II era la negazione della regalità. Così diverso nell’aspetto dal padre Carlo Alberto, legittimava qualche dubbio sulla propria origine. Forse non si trattava che di calunnie, forse quel gran pettegolo di d’Azeglio aveva raccolto, senza verificarla, una diceria divulgata con perfidia. Che la nutrice di Vittorio, il quale aveva allora due anni, ”volendo col lume ammazzare le zanzare” avesse dato fuoco al velo sopra la culla, riportando fatali ustioni, era vero. Ma che nel rogo fosse perito il bambino, nessuno poteva provarlo. E nemmeno escluderlo. In ogni caso, la voce che il piccolo fosse stato sostituito con il figlio di un macellaio fiorentino, certo Tanaca, era un boccone ghiotto, di quelli che oggi farebbero la fortuna di una rivista rosa o di una rubrica di pettegolezzi. E se le fonti ufficiali avessero fornito una versione di comodo? Non c’erano stati testimoni e, comunque, i primi soccorritori non l’avrebbero mai messa in dubbio. Noi al giallo non crediamo. Se il vero erede al trono di Carlo Alberto fosse morto nell’incendio, i genitori, ancora giovani, avrebbero potuto avere altri eredi. Non solo: la sostituzione avrebbe comportato parecchi rischi. Come tenerla segreta? Qualcuno, alla fine, come sempre capita in questi casi, avrebbe parlato, si sarebbe tradito. Lo scambio avrebbe coinvolto troppe persone, dentro e fuori la corte. Troppi occhi avrebbero visto, troppe orecchie sentito. Certo è che padre e figlio erano somaticamente e caratterialmente agli antipodi. Carlo Alberto era alto due metri e quattro centimetri. Introverso, taciturno, ambiguo, ritroso, contraddittorio, più che un uomo sembrava un monumento, algido come un cavaliere di marmo. La sua esangue austerità incuteva soggezione; i suoi gesti erano misurati, come le sue parole; il suo ascetismo non conosceva indulgenze né tollerava eccezioni. Di abitudini spartane, si era imposto una disciplina eroica che regolava ogni ora, ogni minuto della giornata. Si nutriva come un fachiro e, almeno due giorni la settimana, mangiava solo pane e beveva solo acqua. Si alzava all’alba d’estate e d’inverno, ascoltava una o più messe al giorno e non si coricava senza aver detto le preghiere. Più che quella del santo (quale, forse, avrebbe voluto essere) c’era in lui la stoffa del peccatore che cede alle tentazioni, specialmente della carne, per poi macerarsi nel pentimento. Da una simile sfinge remota e indecifrabile, più che un Vittorio Emanuele, poteva nascere un Amleto. Il giovane principe, di statura superiore alla media, aveva l’aspetto robusto e grossolano di un oste di campagna o di un pletorico fattore. Più che sangue blu, nelle sue vene sembrava scorrere grumoso mosto. Castana, tendente al rossiccio, l’ispida chioma; dello stesso colore i baffi a forma di manubrio, superbamente lunghi. Al mento, un pizzo capriccioso a forma di barba di carota, che scivolava, ondivago, su un collo tozzo, più incastrato che avvitato a un tronco gladiatorio. La fronte ampia e liscia incombeva su rade sopracciglia; gli occhi sporgenti erano azzurri, scrutatori, arditi; larghe e un po’ a ventola le orecchie; espanse le guance; il naso sottile leggermente all’insù sembrava un connotato posticcio su quel volto così maschio; le spalle atletiche, le braccia e le mani simili a quelle di un macellaio (non necessariamente Tanaca); le gambe di un cavallerizzo, abituato più a stalloni che a puledri. Più che un bell’uomo, un ”omazz”, come dicono in Romagna. La fisionomia anticipava il carattere. Un carattere semplice fino alla rozzezza, schietto fino alla brutalità, risoluto fino alla temerarietà. Una natura più leonina che volpina, ma più taurina che leonina, refrattaria a ogni pathos interiore, alle tortuosità dello spirito e alle sofisticherie della mente, aliena da snobismi e di una carnalità panica. Quei piaceri che per il padre erano diaboliche tentazioni, per il figlio erano il sale e il nettare della vita. Amava Venere e Cupido e nessun tabù era tale se dispensava voluttà. Da qui un conflitto con la fede cattolica in cui Vittorio Emanuele era nato, nella quale era cresciuto e con zelo esteriore professava. Un conflitto che mai lo turbò e mai gli tolse il sonno, obbligandolo a onerose rinunce. Per salvarsi, o per illudersene, usò e abusò di quel provvido sacramento che è la confessione. Non fece mai prediche o morali, ma sempre e solo ciò che gli pareva e piaceva. Più che fede, la sua era superstizione, intrisa di bigottismo, ma non di fanatismo. Non bestemmiava, ma indugiava volentieri al turpiloquio, meglio se in dialetto piemontese. L’antitesi con Carlo Alberto non poteva essere più stridente. Il che non esclude che fosse suo figlio. Roberto Gervaso