La Repubblica 25/06/2006, pag.1-3 Edmondo Berselli, 25 giugno 2006
Divorzio e devolution la storia in un quesito. La Repubblica 25 giugno 2006.Oltre agli effetti sul terreno costituzionale, il risultato del voto referendario di oggi e di lunedì potrebbe essere l´innesco di un cambiamento importante nella politica italiana
Divorzio e devolution la storia in un quesito. La Repubblica 25 giugno 2006.Oltre agli effetti sul terreno costituzionale, il risultato del voto referendario di oggi e di lunedì potrebbe essere l´innesco di un cambiamento importante nella politica italiana. Di qua o di là: verso una razionalizzazione del sistema o verso il suo stravolgimento. Ai referendum è toccato in diverse occasioni di scuotere la politica allorché la politica era incapace di produrre riforme e modernizzazione. Dopo il referendum istituzionale del 1946, ci sono almeno tre momenti in cui questo si verificò con nettezza. Il primo di essi è naturalmente il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. All´indomani del voto che decise a larga maggioranza il "no" all´abrogazione, i maggiori giornali titolarono sulla "modernità" conseguita dal paese. Più ancora che su un dispositivo di legge, molti osservatori interpretarono infatti quel voto come un plebiscito sulla maturità civile dell´Italia di allora. A distanza di poco più di trent´anni, è difficile restituire il clima in cui si svolse la battaglia sul divorzio: occorre pensare al paese modellato dall´egemonia democristiana, che aveva visto fallire il riformismo del centrosinistra e si stava avviando alla cupezza insensata degli anni di piombo, culminati in seguito nell´assassinio di Aldo Moro. Il referendum sul divorzio, voluto dalla chiesa e subito a malincuore dalla Dc, fu certamente il campo di una battaglia fra due Italie, il paese confessionale e il paese laico e modernizzante; ma rappresentò anche il momento in cui parve che il confronto sui diritti civili potesse dare un ruolo al Partito radicale non solo in termini di avanguardia politico-culturale, ma come nucleo organizzatore di un programma di profondo rinnovamento politico. Sul piano del conflitto culturale oggi c´è poco da dire: l´impegno antidivorzista di Amintore Fanfani appare anacronistico, così come appartengono a un folklore d´altri tempi i suoi comizi di allora (una leggendaria cronaca di Giampaolo Pansa ricorda che il leader dc raggiunse l´acme di un comizio rivolgendosi ai mariti presenti in una piazza del Sud e gridando: «Con il divorzio vostra moglie fuggirà con la serva»). Ma le conseguenze del referendum sul divorzio furono rilevanti sul piano politico: per la prima volta infatti la Dc non era riuscita a tenere dentro il suo perimetro il mondo cattolico. L´apparizione dei cattolici del "dissenso", schierati per il "no" all´abrogazione della legge, rappresentò la prima vera crepa nell´universo democristiano. Si dileguava infatti in quel momento il fantasma storico chiamato "unità politica dei cattolici", uno dei totem democristiani e vaticani; e la struttura della politica cominciava a scomporsi e ricomporsi sull´asse conservatori/progressisti, e quindi a depotenziare il contenuto ideologico, sottraendosi così per la prima volta al regime ricattatorio dell´alternativa fra comunismo e libertà. Ora, che già dalla metà degli anni Settanta il nostro sistema politico fosse orientato verso una formula basata sull´alternanza lo aveva compreso Aldo Moro, e divenne chiaro dopo l´affermazione comunista alle elezioni regionali del 1975 e al risultato con i "due vincitori", Dc e Pci, delle consultazioni politiche del ’76. Lo stesso compromesso storico, se fosse stato concepito in chiave dinamica, e non soltanto in una linea democratica difensiva, avrebbe potuto essere il laboratorio di una struttura politica tendenzialmente bipolare e alternativa (come era avvenuto nel 1966-69 in Germania con la prima Grosse Koalition fra cristiano-democratici e Spd, che preparò il terreno al governo socialista di Willy Brandt). Invece quel processo si inabissò dopo il 1979 e il sostanziale fallimento dei governi di solidarietà nazionale nel tentativo di modificare l´assetto della politica italiana. Occorreva evidentemente un cambio di paradigma. La rottura di fase fu interpretata in modo spettacolare a metà degli anni Ottanta da Bettino Craxi. L´obiettivo apparente e dichiarato del primo governo a guida socialista consisteva nel porre a freno l´inflazione, che negli anni precedenti aveva sfiorato o perfino superato il 20 per cento annuo. Allorché nel febbraio 1984 fu emesso il decreto di san Valentino, primo tentativo di deindicizzare l´economia attraverso il taglio di quattro punti di scala mobile, 27 mila e 200 lire lorde, non parve per la verità che la misura fosse di portata straordinaria. Osservatori come Eugenio Scalfari e tecnici come Guido Carli giudicarono la misura poco incisiva. Eppure quel decreto avrebbe dimostrato che il Partito socialista stava abbandonando l´antica subalternità culturale e politica verso il Pci. Cominciava a delinearsi un confronto la cui immagine principale mostrava da un lato Enrico Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat nel 1980, ultimo rigurgito di lotta prima del riflusso sancito dalla «marcia dei quarantamila» di Luigi Arisio, e dall´altro il Psi "moderno", antideologico, spregiudicato, "geneticamente mutato" di Craxi. Il decreto divise le componenti socialista e comunista della Cgil, mentre il referendum dell´anno successivo spaccò tutta la sinistra e sembrò rendere possibile per il Psi di Craxi una strategia "mitterrandiana", cioè un´alternativa alla Dc basata sulla leadership socialista (incluso il prezzo di un parallelo ridimensionamento del Pci). Dopo poche stagioni tutto questo, compresa «l´onda lunga» socialista, si insabbiò nelle secche del Caf, il blocco di potere basato sulla triade Craxi-Andreotti-Forlani e sull´illusoria eternità del patto di potere fra Dc e Psi. Toccò ancora una volta a un referendum sbloccare la paralisi. Anzi fu l´ondata referendaria che ebbe per protagonista Mario Segni e che si concretò in due momenti: il referendum del 1991 sulla preferenza unica e la consultazione del 1993 che aprì la via all´abbandono del sistema proporzionale. In quella fase pochi fra i protagonisti classici della politica italiana intuirono la portata sovvertitrice dei referendum elettorali. Craxi che tre giorni prima del voto risponde a una domanda sulla preferenza unica dicendo gli italiani «Andate al mare», e quando un giornalista gliene chiede ragione si rivolge ostentatamente ai commensali dicendo: «Passatemi l´olio», è solo l´esempio più vistoso di una perfetta incomprensione dei sentimenti popolari e della spinta a cambiare. A quei tempi, Giuliano Amato giudicava incostituzionali i referendum elettorali, e larghi settori della classe politica apparivano inconsapevoli sia dell´impaludamento del sistema, sia delle pulsioni antipolitiche scatenate dall´emergere di Tangentopoli, nonché della richiesta di cambiamento guidato che proveniva dall´opinione pubblica e dalle élite civili ed economiche. In sostanza, il referendum è uno strumento per molti aspetti brutale, ma le cui ripercussioni sono spesso profonde e imprevedibili. Oggi il referendum confermativo sulla riforma costituzionale della Cdl coglie il sistema politico e istituzionale in un momento di incertezza: con le coalizioni politiche quasi alla pari, con un modello costituzionale che nelle intenzioni della destra rafforzerebbe il primato del capo del governo mentre la legge elettorale ha reintrodotto disastrosamente la formula proporzionale. In questo equilibro così complesso e precario, le ripercussioni del referendum potrebbero essere decisive per osservare un orientamento complessivo della politica. Nell´auspicio, è naturale, che la semplicità tagliente del referendum porti al riavvio di un processo positivo di riforme, e non all´implosione del sistema. Edmondo Berselli