La Repubblica 25/06/2006, pag.42 Paolo D´Agostini, 25 giugno 2006
Roma città aperta. La Repubblica 25 giugno 2006. Una cosa deve essere chiara. Che con il suo libro La storia di Roma città aperta (editori Le Mani e Cineteca di Bologna) Stefano Roncoroni non intende sottrarre qualcosa alla monumentalità, al valore fondante del capolavoro rosselliniano
Roma città aperta. La Repubblica 25 giugno 2006. Una cosa deve essere chiara. Che con il suo libro La storia di Roma città aperta (editori Le Mani e Cineteca di Bologna) Stefano Roncoroni non intende sottrarre qualcosa alla monumentalità, al valore fondante del capolavoro rosselliniano. Le sperticate dichiarazioni d´amore che aprono il libro lo attestano senza equivoci, ed è questo amore viscerale ad aver motivato un lavoro improbo di scavo, incredibilmente avventuroso e lungo tre se non quattro decenni. Fondante in senso artistico: il Neorealismo. E in senso civile: resta l´opera che rappresenta la nascita della nostra nazione repubblicana e democratica. Sono lo sfondo storico, il clima politico, il confronto tra diverse opzioni ideologiche che stavano dietro al film pensato, realizzato e uscito nell´arco di tempo che va dalla seconda metà del 1944 (a Roma liberata) all´autunno ’45 (a guerra finita), a interessare la detection e l´analisi del ricercatore. Il quale, e sa che questo gli procurerà qualche dissenso, ha osato mettere in discussione la presunta e pretesa linearità della concezione di Roma città aperta. Che non fu quella semplice e diretta registrazione dei fatti tramandata dalla storia critica e dalla leggenda. Ma fu invece il risultato di un processo di mediazione e attenta calibratura. Se non di manipolazione, di censura e autocensura. I poli principali. Da una parte lo sceneggiatore Sergio Amidei, comunista inflessibile e interessato a dare atto ai comunisti della loro parte nella Resistenza, a caratterizzare il risultato in senso fortemente antifascista. Il quale mise in gioco esperienze e conoscenze personali dei nove mesi dell´occupazione di Roma, durante i quali la sua casa di piazza di Spagna fu luogo d´incontro clandestino per i massimi esponenti comunisti della Resistenza. E dall´altra il regista con la sua visione apartitica, ecumenica, umanistica, conciliatrice e pacificatrice. L´ipotesi di Roncoroni si fonda sulla ricostruzione del processo ideativo di alcune scene del film e in particolare delle due più celebri. Quella dell´uccisione di Pina (inizialmente Nannina), il personaggio solo all´ultimo affidato ad Anna Magnani (doveva essere Clara Calamai); e quella della fucilazione di don Pietro, il prete interpretato da Aldo Fabrizi, all´origine ispirato a don Pappagallo e poi a don Morosini, entrambi martiri della lotta di liberazione. Appassionato rosselliniano, Roncoroni comincia a dare la caccia alla sceneggiatura originale di Roma città aperta, di cui Rossellini nega l´esistenza mentre Amidei ne lamenta la sparizione, fin dalla fine degli anni Sessanta. Sbatte da una parte all´altra fino a che non rintraccia Aldo Venturini. Chi era? Con il cinema ebbe a che fare una sola volta, questa, subentrò come finanziatore all´iniziale produzione di Roma città aperta a riprese avviate. Ma il suo nome fu poi dimenticato. Roncoroni lo trova, Venturini è riluttante ma poi si lascia andare e tira fuori scatoloni di documenti, soprattutto contrattuali. Dal fondo salta fuori la sceneggiatura, l´introvabile sceneggiatura. Quella originale. Roncoroni fa presto a capire che non otterrà mai il permesso di farla uscire da lì. E allora escogita il modo. Leggere a voce alta il testo e, all´insaputa di Venturini, registrare tutto con un apparecchio nascosto in tasca. Quando alla morte di Venturini uno dei figli va a bussare a casa di Roncoroni per consegnargli i documenti, come da disposizioni lasciate dal padre, la sceneggiatura non c´è. Sparita. Così come più tardi Roncoroni constaterà - un sortilegio? - la sparizione della copia depositata all´ufficio della Proprietà Letteraria presso la Presidenza del Consiglio. Del testo originale Roncoroni riuscirà a scovare soltanto le prime tre e le ultime tre pagine conservate per prassi burocratica presso l´ufficio che concede la nazionalità italiana ai film. Nel volume ha collocato a fronte la sceneggiatura originale da lui trascritta, a sinistra, e a destra quella desunta dal film come tutto il mondo la conosce. Ma veniamo ai passaggi incriminati. L´uccisione di Pina si ispira a un episodio di cui Amidei ha letto il resoconto su l´Unità clandestina. Il 3 marzo 1944 un gran numero di donne si accalca davanti a una caserma di viale Giulio Cesare per reclamare la liberazione dei loro uomini rastrellati dai tedeschi. Una delle tante, Teresa Gullace, affronta un soldato tedesco che le spara a bruciapelo. Nella sceneggiatura di Amidei l´Ss diventa «un milite», un italiano della milizia fascista, con la specifica «un giovinastro dal volto bestiale». lui che respinge brutalmente Pina quando cerca di avvicinarsi al suo Francesco appena arrestato, ed è lui a far fuoco. Ma il film ci restituisce invece la verità storica attribuendo a militari tedeschi rastrellamento e brutalità. Roncoroni può esibire la prova del passaggio dalla scena scritta a quella girata. Le spiegazioni le può solo supporre. Da una parte il desiderio di Amidei di imprimere al film uno spirito radicalmente antifascista lo spinge a forzare, anzi falsificare i dati di un episodio cui si era ispirato. E dall´altra la controspinta ad attutire in nome della pacificazione nazionale le responsabilità italiane-fasciste e ad esaltare quelle dell´occupante nazista. Lungo i mesi di fattura del film la situazione muta, dai due governi Bonomi al governo Parri con la sinistra preponderante (Amendola sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sarà personalmente investito della pratica di rilascio del nullaosta finale al film) e i comunisti orientati ad esaltare le istanze pacificatrici. Saranno proprio loro, in fondo, a "smentire" Amidei e a benedire il "buonismo" di Rossellini. Secondo punto. La fucilazione finale di don Pietro dopo la detenzione a via Tasso e la morte sotto tortura di Manfredi. Nella realtà le fucilazioni erano affidate a effettivi della Guardia di Finanza o della Milizia Fascista o di altri corpi di polizia ma soprattutto della Pai, la Polizia dell´Africa Italiana, ritenuta più affidabile dai tedeschi e fedele alla Rsi, ma comunque i plotoni erano sempre comandati da un ufficiale della Pai. L´esecuzione di don Morosini (3 aprile ’44) avvenne per mano di militi della Guardia di Finanza. Nella sceneggiatura originale non abbiamo testimonianza della volontà di Amidei di attribuire alla Pai la fucilazione di don Pietro, ma Roncoroni ha trovato all´Archivio Centrale dello Stato la "denuncia" di quella volontà. Un carteggio intercorso tra Ministero dell´Interno, Ministero per l´Africa Italiana e Presidenza del Consiglio tra febbraio e marzo ’45 rileva l´inesattezza (sulla sceneggiatura, non può essere altrimenti) e invita energicamente a porvi riparo. Ciononostante resta una diversità fra sceneggiatura e film. In entrambi i casi il plotone d´esecuzione è formato da semplici soldati in divisa regolare dell´esercito italiano. In entrambi i casi c´è un ufficiale italiano ma chi comanda veramente è un ufficiale tedesco. Nella sceneggiatura il plotone manca il bersaglio al primo colpo ma lo finisce alla seconda scarica. Nel film il plotone molto più esplicitamente evita di centrare il sacerdote ed è l´ufficiale tedesco a tirare fuori la pistola non per dare il colpo di grazia ma per uccidere. Che cosa è successo? Che la verità dei fatti è stata comunque falsata attribuendo il colpo decisivo a un ufficiale tedesco e dipingendo i militari italiani come vittime, riluttanti ad eseguire l´ordine del padrone nazista e ad uccidere un italiano come loro. Deresponsabilizzati. L´effetto finale dà al film soprattutto un´impronta patriottica, che sfuma le divisioni ideologiche del fronte antifascista ("salta" completamente dalla sceneggiatura al film il passato di Manfredi nelle Brigate Internazionali), riversando le responsabilità più odiose sull´invasore e preparando il terreno alla conciliazione tra italiani. Per lo più "brava gente" o "attendisti" come dichiarano i personaggi minori: dal sagrestano Agostino al brigadiere napoletano, dal borsaro nero alla portiera del palazzo di Pina. Una prospettiva confermata anche dai passaggi la cui temperatura somiglia a quella che sarà propria della commedia all´italiana. Uno per tutti, anch´esso corretto strada facendo nel tono: la battuta che Pina fa sull´attesa degli alleati rivolgendo uno sguardo sornione al palazzo ridotto in brandelli dai bombardamenti "amici". Il film non ebbe il permesso di girare nei luoghi veri: né via Tasso né Forte Bravetta, dove si svolse la fucilazione di don Morosini. Mentre la morte di Pina, che in sceneggiatura è ambientata davanti al complesso monumentale del San Michele a Trastevere fu poi girata in via Montecuccoli al Prenestino-Casilino, sotto la casa della protagonista. Ma alla location di Trastevere si collega un altro punto discusso da Roncoroni. Dopo la cattura di Francesco e la morte di Pina, Manfredi organizza un´azione per la liberazione dei rastrellati. In sceneggiatura è previsto che ciò si svolga sul lungotevere, coprendo una zona vasta, con impiego di molti uomini: un´azione di guerra in piena città - come via Rasella - con Manfredi che «spara con fredda calma». Nel film lo sfondo è quello del neonato Eur, piena campagna, i mezzi sono più contenuti e Manfredi è molto meno militaresco. Ecco, infine, perché Roma città aperta ha preferito all´originario modello di don Pappagallo quello di don Morosini. Il primo richiama la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, dove il sacerdote finì, e quindi la catena che aveva provocato l´eccidio: i Gap, le formazioni partigiane comuniste che agivano in città con attentati e sabotaggi, e la controversa azione di via Rasella che vide i comunisti isolati dagli altri partiti del Cln. Il secondo, nonostante fosse stato quanto don Pappagallo un "prete armato", diventa un modello più funzionale al disegno rosselliniano: perché non ricorda le Fosse Ardeatine (e il resto) e perché viene svuotato di una parte della sua vera identità e celebrato come esempio di resistenza disarmata. Paolo D´Agostini