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 2006  giugno 25 Domenica calendario

Un americano a piazza Vittorio. Corriere della Sera 25 giugno 2006. Sostiene il critico Vittorio Sgarbi che «se un giorno si riuscisse nella grande impresa di riunire tutte le migliaia e migliaia di dipinti di Kostabi, uno dopo l’altro, dovremmo ammettere di aver fatto la storia illustrata più vasta mai registrata dalla storia dell’arte»

Un americano a piazza Vittorio. Corriere della Sera 25 giugno 2006. Sostiene il critico Vittorio Sgarbi che «se un giorno si riuscisse nella grande impresa di riunire tutte le migliaia e migliaia di dipinti di Kostabi, uno dopo l’altro, dovremmo ammettere di aver fatto la storia illustrata più vasta mai registrata dalla storia dell’arte». Forse neppure Mark Kostabi riesce più a tenere il conto delle sue opere. E il numero continua a crescere con una velocità sorprendente, perché quella inventata dal pittore americano è una vera e propria industria dell’arte, creata per la società di massa, con l’intento di trasformare tutto il pubblico in potenziali clienti, di coinvolgerli addirittura nell’elaborazione dei quadri. Tuttavia Kostabi afferma di ispirarsi non ai modelli produttivi dell’era post-indusriale, ma ai grandi maestri del passato. Per capire un po’ meglio di che si tratta, bisogna visitare questa mostra, organizzata da Sgarbi e Luca Beatrice, che raccoglie 150 opere recenti dell’artista, arrivate a Roma dopo il sucesso trionfale della personale newyorkese all’Adam Baumgold Gallery. Ma bisogna anche sapere che l’idea originale di tutte queste opere è nata a Roma, mentre la realizzazione avviene a New York, in quella Factory del XXI secolo che è il Kostabi World a Soho. Qui l’artista ha riunito 25 pittori che eseguono materialmente i suoi quadri, a olio su tela. «Vengono da tutto il mondo- racconta Kostabi. - Ci sono anche tre italiani e sono i più veloci nel dipingere. Il più veloce in assoluto si chiama Fabio d’Aroma, di Perugia. L’ho soprannominato Fabio Fapresto, in omaggio a Luca Giordano, così chiamato per la sua rapidità». Alla Factory si entra dopo un esame con lo stesso Kostabi. «Gli aspiranti pittori mi inviano le loro opere in diapositiva o per e-mail. Devono saper fare il chiaroscuro di Caravaggio e lo sfumato del Perugino, con un tocco del surreale di Magritte e della melanconia di De Chirico». Il suo laboratorio di Soho lavora in questo modo: Kostabi esegue a Roma il disegno, lo invia per e-mail ai suoi collaboratori che lo trasferiscono su tela e lo dipingono. Ogni giorno, sempre via computer, gli mandano il lavoro fatto e lui interviene suggerendo di aumentare la tonalità di un turchese o di cambiare un giallo. «Ma ci sono anche collaboratori - aggiunge l’artista - che disegnano nel mio stile, che addirittura si fanno venire le idee che potrei avere io e a quel punto vengono prodotti quadri in cui io non ho fatto proprio niente, ho solo messo la firma, e ne sono molto fiero». Perfino il titolo è stato «commercializzato». Kostabi infatti compra titoli per i suoi quadri con un programma televisivo, «Name That Painting», che in America è ormai di culto. «Invito una platea di critici, faccio vedere le opere e loro devono trovare il titolo. Pago personalmente il vincitore: dai venti ai cinquanta dollari. Non è poco, per due parole». Parla a raffica, in un italiano che ha conservato tracce di yankee, nonostante i dieci anni vissuti a Roma, tra una casa a Campo de’ Fiori e un’altra a piazza Vittorio. «Ho scelto di vivere qui perché è la più bella città del mondo. La gente è accogliente, si mangia bene, c’è il mio artista preferito, Caravaggio». Roma l’ha influenzato anche nel lavoro: «Ho approfondito l’indagine sul rapporto tra arte e architettura italiana, la mia pittura è diventata più sensuale, opulenta, ottimista. Prima ero più cinico». Continua tuttavia a mettere alla berlina la cosiddetta «financial art», fatta da artisti che hanno il solo obiettivo di produrre «un’arte di élite» per raggiungere quotazioni record alle aste. Kostabi, che molti criticano perché commerciale, ha in realtà scelto di esser commerciale e non lo nasconde. Da vero democratico, aspira ad essere compreso da tutti e vuole vendere a tutti, dai cittadini delle megalopoli americane fino agli sperduti villaggi dell’Astralia. Capita, anche a Roma, di incontrare una sua opera appesa in un negozio di profumeria. Ma l’ultima aspirazione di Kostabi è di dipingere una nuova Cappella Sistina, dove le figure michelangiolesche vengano sostituite dalle sue figurine bianche senza volto e senza sesso, che si specchiano nell’arte classica in un continuo gioco concettuale. «Ho giò cominciato a cercare il soffitto - annuncia - Deve essere grande come qello in Vaticano». Di una chiesa? «Perché no. Ma andrebbe bene anche quello di un supermercato». Lauretta Colonnelli