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 2006  giugno 28 Mercoledì calendario

A qualcuno piace cotto. La Stampa 28 giugno 2006. Dal 26 al 30 ottobre a Torino, insieme al Salone del Gusto, torna Terra Madre

A qualcuno piace cotto. La Stampa 28 giugno 2006. Dal 26 al 30 ottobre a Torino, insieme al Salone del Gusto, torna Terra Madre. L’evento torna con un ulteriore e ambizioso obiettivo. Vogliamo capire meglio di quali competenze si avvale una Comunità del Cibo, quali sono i saperi che la arricchiscono e quali sono le relazioni tra questi saperi. I tre grandi regni di conoscenze che coabitano nelle comunità del cibo più complete e fortunate sono quello della sapienza dei produttori di materie prime; quello della sapienza dei trasformatori e dei cuochi, in continua evoluzione ma anche in un delicato equilibrio tra stabilità (i prodotti, la natura) e cambiamento (le esigenze dei clienti, i ritmi di vita) e infine quello della scienza ufficiale, ovvero la Ricerca con la maiuscola, quella che troppo spesso non considera, o non sa come dialogare, con gli altri due saperi. Il mio incontro, come presidente di Slow Food, con Luca Cavalli Sforza, padre della genetica moderna applicata allo studio delle popolazioni, è forse già di per sé una metafora della ricerca di questo dialogo, da altre parti spesso negato. Le ragioni dei consumatori e dei produttori, dell’agricoltura tradizionale e della gastronomia, incontrano le ragioni della ricerca, quelle della teoria più o meno pura, per scoprire che c’è un terreno comune da cui ripartire. Quando compare l’agricoltura sulla terra? «L’agricoltura comparsa negli ultimi 12 mila - 15 mila anni, quindi fino a quel tempo il mondo è vissuto di caccia e di pesca. Oggi di cacciatori e raccoglitori ne sono rimasti pochissimi, però io li ho studiati molto e quando ero con loro in Africa, con i pigmei, la prima cosa che mi aveva stupito era che mangiavano benissimo. Penso che questo fatto semplice ma sorprendente ci conduca ad un’interessante ipotesi di un antropologo di Harvard, che sostiene che è probabile che il fuoco sia stato inventato molto prima di quanto si pensi. Le più antiche testimonianze archeologiche sul fuoco sono vecchie di 700 mila anni, ma in realtà 1.700.000 anni fa già si facevano strumenti abbastanza avanzati, più raffinati. A quel tempo, l’uomo che faceva questi strumenti iniziò una grandissima espansione, dall’Africa naturalmente - perché tutto viene dall’Africa - verso l’Europa e l’Asia. Certo non arrivarono in America e in Australia, ma in tutto il vecchio mondo sì. Il mio collega dice che il fuoco a quel tempo ci doveva già essere, perché è difficile pensare che senza fuoco siano riusciti ad andare in luoghi così lontani incontrando nuovi animali e nuovi pericoli. Il fuoco è di grande aiuto in molte circostanze, per riscaldarsi - arrivarono fino in Siberia - e per difendersi dagli animali mantenendolo acceso durante la notte; ma, cosa ben più importante, esso serve per cuocere il cibo, e questo fu un cambiamento gigantesco. L’ipotesi di postdatazione del fuoco comincia ad essere abbastanza accreditata, anche perché senza fuoco neanche la successiva espansione di cui tutti noi siamo figli, quella avvenuta solo 50 mila anni fa e che ha coinvolto tutto il mondo, sarebbe potuta avvenire». La cucina è il terreno favorito dello scambio. Gli incontri tra diverse popolazioni e i relativi prodotti sono continua fonte di innovazione. Lei ha accennato al cibo cotto: nello studio di come l’uomo e la cultura si sono diffusi per il mondo, che ruolo dà alla cucina, intesa proprio dal punto di vista culturale, l’atto che culturalmente trasforma la natura: c’è una qualche uniformità tra le varie ere e le varie popolazioni? «Credo che l’elemento centrale della cucina, dal punto di vista evoluzionistico non stia tanto nei risultati, che vanno ovviamente considerati in modo soggettivo e dipendente da quel che si cuoce ma, a livello generale, nel fatto che cuocere il cibo consentì di digerirlo, di conservarlo e lo rese più sano. In alcuni casi è la cottura stessa che crea il cibo: lo stesso elemento crudo non può essere cibo, ma cotto sì. E quindi il fuoco, la cucina, ampliò enormemente, con un semplicissimo processo di trasformazione, le probabilità di sopravvivenza, la possibilità dell’evoluzione». E’ possibile paragonare la cottura del cibo al linguaggio, dal punto di vista evoluzionistico? «Credo che il fuoco sia molto precedente allo sviluppo del linguaggio moderno. Del linguaggio non sappiamo molto, ma l’unica cosa che possiamo dire con certezza è che deve essersi sviluppato prima dell’ultima grande espansione, quella di 50 mila anni fa, perché tutti noi, parte dei popoli odierni che da quella espansione derivano, parliamo linguaggi estremamente progrediti, e tutti siamo in grado di imparare qualunque linguaggio al mondo. All’età giusta questa capacità è molto naturale, cioè entro i primi 3-4 anni di vita: dopo quel periodo nessuna lingua potrà essere imparata come lingua materna, ma prima sì, chiunque al mondo può apprendere qualunque linguaggio. E questo ci dice che abbiamo una struttura cerebrale comune, noi figli di quella espansione recente. Dunque il linguaggio deve essere comparso nella sua forma odierna già più di 50 mila anni fa, ma questo può significare al massimo soltanto 150 mila anni fa. Tutti gli antropologi tendono a dire che il linguaggio moderno è stato il propulsore, uno dei maggiori promotori, dell’ultima grande espansione perché una buona comunicazione è necessaria per dirsi fatti importanti. La cucina invece è molto più antica, non ci sono dubbi». Questo è molto interessante. Oggi noi, che ci occupiamo di cibo e di cucina, tendiamo a considerare la cucina stessa come una forma di linguaggio, e ora lei mi sta facendo pensare che forse la cucina è stata una forma di comunicazione pre-linguistica, un altro modo di passarsi informazioni. Se pensa a quel che significa il cibo nelle relazioni tra generazioni, a come un sapore, o il ricordo di un sapore diventa paradigmatico del legame con i nostri genitori e le generazioni precedenti, siamo davvero di fronte a un argomento affascinante. «Su questo mi sento di dire che sono sicuro: in fondo il cibo che a noi piace di più, se abbiamo avuto la fortuna di avere una madre che fosse anche una buona cuoca, è quello che ci ha preparato nostra madre. Tutto quello che noi apprendiamo nella più giovane età è profondamente radicato e quindi poi cambia molto più difficilmente. Abbiamo introdotto l’idea che bisogna distinguere la trasmissione culturale in due tipi, quella verticale che si ottiene dai genitori e quella orizzontale che si ottiene anche da persone non imparentate e a qualunque età: quella dei genitori avviene inevitabilmente nei primi anni, ed è molto più duratura nel corso della vita e anche nel corso delle generazioni perché è quella che viene trasmessa regolarmente da una generazione all’altra. Ora, oltre al linguaggio, una grossa parte di quel che si impara nei primi anni di vita sta nella distinzione tra quel che è buono e quel che è cattivo: è quindi certo che la cucina in questo deve pur avere un ruolo centrale». Un altro legame che in questo quadro va riconsiderato è quello del binomio uomo-cibo con l’agricoltura. Anche questo, come il linguaggio, è molto posteriore alla cucina, anche se per noi uomini del Duemila cibo e agricoltura ormai sembrano due elementi inscindibili. «Naturalmente ci sono molti aspetti da considerare se si parla della cucina, e la ricchezza che si è sviluppata nelle ultime migliaia di anni con l’agricoltura ha permesso di creare cibi senza dubbio più raffinati; però ripeto che, per quel poco che ne so, il cibo dei cacciatori raccoglitori, che sono i più umili tra gli indigeni africani, è buono!» Questo legame tra agricoltura, produzione, linguaggio, è un legame molto stretto che appartiene nello specifico a ogni cultura ma che comunque accomuna abbastanza tutte le situazioni. E’ stato osservato che la perdita, costante ormai, di agro-biodiversità si accompagna regolarmente alla perdita delle parole connesse a quegli alimenti. Ecco, nel quadro generale di un evoluzionismo fatto di linguaggi, culture, e in parte anche di geni, tutto questo cosa significa, che il processo evolutivo si modificherà, rallenterà un po’? «La natura, e noi anche, siamo profondamente economi. Se qualcosa non serve, non viene usato, lo perdiamo. L’esempio più semplice è quello degli animali che vivono in caverna al buio completo e che perdono la vista. Così anche noi inevitabilmente perdiamo tutto quello che non ci serve. Per esempio, la foresta tropicale è ricchissima di piante: io quando ci lavoravo sono andato con un etnologo e un botanico di Pavia che ne studiavano la fauna e la flora. I pigmei che ci vivono da tanto tempo hanno un nome per distinguere tutte le piante e gli stessi animali; gli scienziati conoscono questi nomi, ma i pigmei ne sanno di più perché per loro non è una questione di botanica, quella è la loro vita, il loro cibo, i loro pericoli, la loro ricchezza. Per questo hanno un vocabolario vastissimo per descrivere le piante e gli animali della foresta. I contadini, invece, che della foresta non hanno bisogno e ci vanno solo ogni tanto a caccia, ma sempre accompagnati dai pigmei, sono ignorantissimi a proposito, non sanno niente. Così come per un altro verso il pigmeo non sa coltivare. Certo il problema è che questi popoli raccoglitori che ancora conservano tutte queste informazioni e queste sapienze sono ormai molto deboli, ridotti numericamente, e quindi se loro sono gli unici depositari di questi saperi, certamente si perderanno anche le loro parole. Ma questo, dal punto di vista evoluzionistico, ha una logica: se una cosa non viene usata si atrofizza e scompare». Lei studia le popolazioni e a Terra Madre si sono incontrate due anni fa Comunità di circa 130 paesi, mentre quest’anno prevediamo che ne arriveranno da 150. Ecco, un evento come Terra Madre dal punto di vista di uno studioso delle popolazioni quale interesse può rivestire? «Un mio studente, che si chiama Spencer Wells, sta facendo raccolte genetiche. Il suo programma è di analizzare nei prossimi cinque anni 100 mila individui di mille diverse popolazioni, cento individui per ogni popolazione. Questa è una cosa magnifica, che oggi si può fare evitando i prelievi di sangue, che per molte etnie sarebbero un problema. Studiare l’origine genetica di una popolazione serve moltissimo, per capire le provenienze, gli sviluppi, le malattie genetiche, le intolleranze; inoltre certamente sarebbe molto utile alla comunità scientifica, che potrebbe progredire nella ricostruzione della mappa degli spostamenti dell’umanità nel corso dei millenni e dei secoli. Si tratta di un progetto ambizioso, Terra Madre potrebbe essere d’aiuto a tutti quegli studiosi che desiderano approfondire le caratteristiche delle diverse popolazioni del mondo». Carlo Petrini