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 2006  giugno 18 Domenica calendario

Il genoma è un mare di diversità. Il Sole 24 Ore 18 giugno 2006. Dal 21 al 24 giugno a Seattle, l’American College of Epidemiology tiene il suo convegno annuo e per prepararne una sessione che prevede agitata, lo fa precedere dal seminario ”Razza e farmacogenomica: che deve fare un epidemiologo?” E’ organizzato dai centri Export dell’università della California a Los Angeles e dell’università di Tuskegee per la ricerca contro le disuguaglianze sanitarie delle minoranze etniche

Il genoma è un mare di diversità. Il Sole 24 Ore 18 giugno 2006. Dal 21 al 24 giugno a Seattle, l’American College of Epidemiology tiene il suo convegno annuo e per prepararne una sessione che prevede agitata, lo fa precedere dal seminario ”Razza e farmacogenomica: che deve fare un epidemiologo?” E’ organizzato dai centri Export dell’università della California a Los Angeles e dell’università di Tuskegee per la ricerca contro le disuguaglianze sanitarie delle minoranze etniche. Tuskegee, difficile scordarlo, è la città dell’Alabama in cui dal 1932 al 1972, alcuni medici hanno studiato il decorso della sifilide non curata in 608 afro-americani, dopo averli arruolati nell’esperimento dicendo loro che soffrivano di ”sangue cattivo” ma non si preoccupassero, avrebbero ricevuto una terapia nuova e gratuita. Se si tiene conto delle atrocità evocate dalla parola ”razza” e che dai tempi del Progetto Genoma Umano scienziati e altri intellettuali esprimono il timore che ”la scienza dura del DNA” rafforzi gli stereotipi razzisti, e che la famarcogenetica vuol distinguere a priori l’efficacia o meno di un farmaco su individui e gruppi etnici in base al loro Dna, si intuisce che il povero epidemiologo è nei guai. Oggi più che mai. Il 16 giugno 2005, la Food and Drug Administration ha approvato il BiDil – un farmaco che associa due molecole generiche - limitandone la prescrizione agli afroamericani. Nel 1997 non l’aveva approvato perché su un campione misto della popolazione era risultato poco efficace e il brevetto doveva scadere nel 2007. Ma tre anni fa la società Nitromed che lo produce ha ottenuto l’appoggio della National Association for the Advancement of Colored People e del Black Congressional Caucus, e versato 200 mila dollari all’Association of Black Cardiologists perché sponsorizzasse un altro esperimento su 1054 afroamericani. Dai risultati pubblicati a fine 2004 e criticati per le carenze teniche da esperti di vari colori, il BiDil risultava superiore al placebo; ora la decisione dell’FDA ne protrae il brevetto fino al 2020. Per il BiDil come per le ricerche di genetica race-based che si moltiplicano - dalla tossicità delle chemioterapie al diabete e all’obesità - scienziati e intellettuali neri sono divisi. Per alcuni ”il triste passato della medicina race-based non deve frenare lo sviluppo di cure individualizzate”. Altri si chiedono se la ricerca di sottili differenze genetiche non trascuri le disparità socioeconomiche tra neri e bianchi e trasformi le malattie dei primi in destino o in una colpa, un po’ come la povertà. All’Arizona Respiratory Center dell’università dell’Arizona, Donata Vercelli cerca di identificare variazioni genetiche sottostanti ad allergie respiratorie e all’asma, i fattori innati che predispongono il sistema immunitario dei pazienti alla ribellione e come si esprimono nel loro fenotipo. ”L’ambiente accademico è fortemente contrario a ogni razzismo,” dice, ”ma ormai ha chiaro che dal punto di vista genetico le etnie, le razze, le chiami come vuole, esistono e che applicare i principi della farmacogenomica a bianchi, neri, asiatici o ispanici come se fossero tutti uguali sarebbe controproducente. Il politically correct vorrebbe che fossimo anche color-blind, ciechi davanti all’etnia. Invece dobbiamo guardarla con intelligenza e accertare le sue predisposizioni genetiche che consigliano o sconsigliano un determinato farmaco. Le etnie esistono: se lei mi fa vedere un dato polimorfismo, so a quale gruppo attribuirlo. Non confondiamo però la percezione sociale della razza e i dati concreti del DNA. Questo racchiude la nostra storia, non determina il nostro presente e il nostro futuro. Il programma genetico non è immutabile: dipende dall’interazione con l’ambiente. In Africa, gli africani soffrono raramente di asma, ma se emigrano in Gran Bretagna, dopo una generazione è diffusa tra loro come nel resto della popolazione. Avrà però una cura diversa perché la reazione agli allergeni dell’ambiente è dovuta a meccanismi molecolari diversi, questi sì determinati da variazioni genetiche.” Se si sommano i polimorfismi identici che predispongono a un’allergia, al cancro al colon o alla reazione positiva a un farmaco, si ottiene davvero un’etnia, una razza, chiamiamola come vogliamo? Per Noah Rosenberg, dell’università del Michigan, le analisi statistiche (cf. PLoS Genetics di dicembre, per esempio) confermano ”l’esistenza delle razze nell’accezione comune del termine”. Ma Guido Barbujani, su Current Genomics, dimostra che non esiste l’’accezione comune.” Genetista all’università di Ferrara, in quell’articolo luminoso ripercorre i tentativi di raggruppare le popolazioni in categorie da Linneo a oggi, lasciando che l’incoerenza a volte comica delle inclusioni ed esclusioni parli da sé. ”La razza è una realtà sociale e come tale continuerà a influire sulla nostra vita,” scrive. ”La categorizzazione razziale ha una storia lunga e potrebbe essere dovuta alla necessità di identificare velocemente nemici e alleati potenziali. Tuttavia la realtà biologica è un’altra: per gli esseri umani è una realtà di variazioni e gradienti continui, di confini genetici che attraversano lo spazio geografico senza delimitare né definire gruppi isolati e specifici di popolazione.” In genetica, parlare di razza nel senso di popolazione, conclude, è un uso improprio del linguaggio. In farmacogenomica, impedisce di sfruttare al meglio i dati forniti dalla genetica. E, in generale, di capire la diversità e l’evoluzione umana. D’altronde Barbujani, inserito nella realtà sociale come tutti, sente come tutti di appartenere a un’etnia, una razza, chiamiamola come vogliamo, un’illusione che gli viene tolta proprio dalle sue ricerche. Nel racconto che ne fa qui, si spezza il doppio filo del Dna e resiste il legame intellettuale; le ragioni della mente, come quelle del cuore, non sono quelle della genetica. Sylvie Coyaud