Varie, 20 giugno 2006
COPPI Franco
COPPI Franco Tripoli (Libia) 29 ottobre 1938. Avvocato • «[...] uno dei principi del foro di Roma [...] è stato, tra l’altro, difensore di Giulio Andreotti, nel primo processo di Palermo; e di Sergio Cragnotti, nella vicenda giudiziaria riguardante il crac della Cirio. [...]» (“Corriere della Sera” 20/6/2006) • «[...] dal processo Andreotti in poi [...] è diventato celebre per la cura meticolosa con cui studia le carte e sa far saltare fuori le contraddizioni di un castello accusatorio. Anche quello apparentemente più saldo. [...]» (Francesco Grignetti, La Stampa 28/4) • «Vim vi repellere licet. È lecito respingere la violenza con la violenza. Eleganza e concisione del latino. “Una frase brevissima dice Franco Coppi, avvocato penalista, professore ordinario di Istituzioni di Diritto Penale alla Sapienza di Roma riesce a contenere l’intero concetto di legittima difesa”. Il professor Coppi è come il latino: elegante, conciso, definitivo. Concreto. Autorevole. Radicato nell’hic et nunc eppure vivo al confronto costante con le radici classiche dell’Uomo. Colto. Snob se occorre. Poeta che conserva nella libreria, sul dorso cartonato di un codice, quel che resta del suo amato dogo Jerry, muscoloso e potente: le immagini che gli ha personalmente scattato, pubblicate in un libro per cinofili. Ha difeso, citando alla rinfusa, Giulio Andreotti nel processo Pecorelli e, nel processo Lockheed, l’allora ministro Gui. Ha assistito Francesco Cossiga e Antonio Fazio, ma anche calciatori e giornalisti, il generale Nicolò Pòllari per il caso Abu Omar e alcuni degli indagati per i presunti abusi su diciannove bambini della scuola “Olga Rovere” di Rignano Flaminio. Di lui esistono poche fotografie. Non frequenta d’abitudine i salotti televisivi. Ama la fotografia, il teatro (un altro dei suoi cani si è chiamato Mila, come la Mila di Codro della Figlia di Jorio dannunziana), lo sport. Si dichiara, orgogliosamente, un romanista fradicio. Quale, professore, il tratto distintivo del suo carisma? “Che io sia carismatico è da dimostrare...”. Basta assistere ad una delle sue lezioni all’Università, a una delle sue arringhe. Dati i tempi, un grande avvocato può ancora concedersi la facondia di Ortensio o deve sempre preferire la stringatezza di Cicerone? “Distinguiamo. L’ornato per l’ornato, l’oratoria fine a se stessa, mai. Io non parto, in nessuna occasione, con l’idea di fare ‘la bella arringa’. L’arringa è uno strumento per convincere e tale deve sempre risultare. Poi ci sono i vari casi. Quando si affrontano delitti passionali, reati di sangue o reati politici, vale a dire questioni che fanno inevitabilmente appello ai sentimenti, può nascere la “bella arringa”. Ortensio non è morto. Va usato in alternanza con Cicerone. Con questo, l’aspetto estetico di un’arringa può risultare, quando è il caso, fondamentale”. I media e il luogo comune insistono sull’aumento dei delitti efferati. Lei è d’accordo o l’efferatezza accompagna abbondantemente la natura umana dall’origine? “Caino e Abele sono sempre esistiti. Alla fine delle fini bisogna ammettere che l’Uomo è ancora uguale a se stesso. Ho scritto un libro sui maltrattamenti in famiglia nell’Ottocento e sfido chiunque a non ritenere efferata, anche nel confronto con l’oggi peggiore, l’azione di una padrona che preme il ferro da stiro bollente sulla mano di una servetta indisciplinata o il padre che lascia un’intera notte fuori dalla porta, in pieno inverno, la figlia che vuole punire. Semmai, possiamo sottolineare che è del nostro tempo, in modo accentuato, il delitto ‘per imitazione’. Basta un regista folle che metta qualcosa di tremendo in un film per creare nella realtà gli imitatori del delitto visto nella fiction”. Perché l’avvocato penalista ha più appeal, presso l’opinione pubblica, di quello civilista? “Una bella moglie che uccide il marito anziano per godersi i soldi con l’amante non può non interessare di più, a livello emotivo, di uno scontro fra due parti in lotta, poniamo, per un risarcimento. I delitti ‘naturali’, quelli che fanno scaturire la bella arringa, coinvolgono a livello ancestrale”. È giusto che un avvocato usi la propria perizia per allungare i tempi di un processo, in un Paese di giustizia lenta quale è il nostro, fino a far scattare la prescrizione? “È giusto che i processi, dopo un certo periodo, debbano chiudersi. Non si può ammettere che un imputato, dopo dieci o vent’anni, sia ancora in attesa di verdetto. Anche se colpevole, ha diritto di conoscere celermente la propria sorte; non possiamo lasciarlo procedere nella vita, magari sposare, avere figli, e dopo anni pronunciare nei suoi confronti l’eventuale condanna. Ciò detto, sul piano della lealtà, un avvocato non può e non deve far nulla per favorire il maturare della prescrizione. Non può presentare certificati medici compiacenti, né altre cose simili, per far slittare in avanti i tempi di un processo. La prescrizione non può mai essere un mezzo di difesa”. La scelta di essere penalista deriva da una propensione spiccata al garantismo? “La distinzione fra penalisti e civilisti esiste nelle grandi città. Nei piccoli centri gli avvocati esercitano spesso nei due campi. Diciamo che nel penale, dove è in gioco la libertà degli individui, il garantismo è più eclatante, più appariscente”. Il Villaggio Globale obbliga l’avvocato a tener sempre più conto della dimensione internazionale della sua professione. Con quali risultati? “Nel civile la necessità di ‘globalizzarsi’ è più presente. I penalisti sono ancora legati, invece, a un luogo, alle persone che ci abitano: un accusato cercherà sempre il suo difensore nel posto dove si è messo o trovato nei guai [...]Non ho mai perso il sonno per un processo. Può essere stato o essere l’ultimo pensiero di una giornata, prima di dormire, e il primo di quella seguente, al risveglio. Ma nell’intervallo riesco a dormire benissimo [...] Un avvocato lotta quotidianamente contro l’ignoranza, la volgarità, il pregiudizio, la cattiveria [...]”» (Rita Sala, “Il Messaggero” 3/3/2008).