La Repubblica 14/06/2006, pag.43 Edmondo Berselli, 14 giugno 2006
Quando il calcio è un’opera buffa. La Repubblica 14 giugno 2006. Una volta, da hegeliano, credevo solo nelle astrazioni: tesi, antitesi, sintesi; struttura, sovrastruttura; paradigma, sintagma; comunità, società; secolarizzazione, burocratizzazione (schemi nell´ordine di Hegel, Marx, Saussure, Tönnies, Weber: se volete ne aggiungo uno di Heriberto Herrera)
Quando il calcio è un’opera buffa. La Repubblica 14 giugno 2006. Una volta, da hegeliano, credevo solo nelle astrazioni: tesi, antitesi, sintesi; struttura, sovrastruttura; paradigma, sintagma; comunità, società; secolarizzazione, burocratizzazione (schemi nell´ordine di Hegel, Marx, Saussure, Tönnies, Weber: se volete ne aggiungo uno di Heriberto Herrera). Adesso credo solo negli episodi, anzi, più precisamente negli aneddoti. Avessi potuto riportare allora la battuta di Stefano Ricucci all´epoca della scalata del Corriere della Sera, a metà del 2005: «So´ bboni tutti de fa´ i froci cor culo degli altri», il libro avrebbe messo in repertorio un altro exploit della cultura di massa contemporanea. E per chiarire con un´altra domanda indiziaria il modello di fondo del libro: sarà stato Jorge Valdano, bravo centravanti dell´Argentina campione del mondo del 1986, a raccontare che il cittì Alfio Basile era solito commentare con aria disarmata: «Io sono bravissimo a disporre gli uomini in campo; purtroppo al fischio d´inizio loro si muovono»? E se non lui, chi? Ma fra gli aneddoti che si tramandano per ricordare ai posteri che cos´era il gioco del calcio, ne vorrei aggiungere almeno due. Il primo è lo Schema Accanito di Nereo Rocco. Nel chiuso degli spogliatoi prima di un match clou, all´epoca del suo Padova scarpone per gli offensivisti e tatticamente geniale per i difensivisti, fissando i suoi giocatori con gli occhi che fiammeggiavano, il «paròn» intimò: «Ragassi, qualsiasi cossa se move ’n campo, déghe!»; per poi aggiungere, stringendosi nelle spalle con simulata e complice rassegnazione: «Se ’l xè el balon, pasiensa». L´altro apologo si intitola Il Carniglia Ufficioso, me lo ha raccontato Gianni Mura, e io ve lo racconto dopo. *** Il Tiro mancino ha avuto estimatori prestigiosi. Nessuno di loro ha voluto credere che il libro fosse stato scritto a memoria, anche se mi sbracciavo per convincerli. Inutilmente segnalavo errori vari e imprecisioni mnemoniche che erano restati nel testo a stampa. E invece è proprio così. Il metodo era che scrivevo senza verificare nulla, per un impegno preciso assunto con me stesso; al massimo accettavo le correzioni che in corso d´opera alcuni gentili lettori mi segnalavano. Di questo criterio (Principio di non verifica) comprendo la sostanziale assurdità. L´arbitrio, la gratuità, la vanità. Ma tutti noi viviamo di atti gratuiti, di superstizioni quotidiane, di fenomenologie apotropaiche, orientandoci faticosamente dentro una segnaletica di dettami infondati che abbiamo creato per complicarci la vita. Il grande antropologo francese Marcel Mauss, a uno studente che gli chiedeva come distinguere un fenomeno mitico-magico da fenomeni che mitico-magici non sono, dopo una breve e riflessiva esitazione rispose: «Mah, sa cosa le dico, caro ragazzo? In vita mia credo di avere incontrato solo fenomeni mitico-magici». E qualche anno dopo ho letto Imre Lakatos (o era Paul Feyerabend, controllate voi), il quale sosteneva una scienza anarchica che assomigliava moltissimo nei suoi criteri epistemologici di base e nel metodo al Tiro mancino. Legge fondamentale della scienza: si procede alla carlona, si formulano teorie qualsiasi, poi agisce una selezione darwiniana, qualcuno mette un imprimatur sulla teoria meno improbabile e si forma una scuola. Invece, in un saggio assai sofisticato uno studioso di cultura ebraica dell´Università di Venezia, Piero Capelli, ha paragonato Il più mancino dei tiri, nel metodo e nel sistema, al Talmud e a Internet (o, più precisamente, al libro di Jonathan Rosen Il Talmud e Internet, Einaudi, 2001). Ostreghéta, orcoccàn, avrebbe commentato il Paròn. *** Naturalmente ho saccheggiato Gianni Brera, come tutti. In materia calcistica era un reazionario, tanto che argomentò fino all´inverosimile, fino all´inattuale, oltre l´oltre, spergiurando sull´impossibilità tecnica e fisica di tornare al gioco a zona. Ma come, maestro! Gioca a zona Liedholm con la Roma, non vede? E questo Sacchi, con la squadra corta, le ripartenze, il fuorigioco. Macché, non ci voleva credere: non è sostanza e non è accidente, è una zona finta; giocano a zona a centrocampo ma in difesa marcano a uomo; sono baggianate della scuola «napoletana», altroché. E il fuorigioco lo facevano gli uruguagi già negli anni Trenta, e poi hanno smesso perché era troppo faticoso. E di imporre il nostro gioco non se ne parla, perché l´Italia è una squadra femmina, e safety first. E anche perché gli italiani hanno dei terribili deficit bio-razziali, fame antiqua, bozzi sulla fronte, rachitismi, spine dorsali cifotiche, tutte caratteristiche che inibiscono la pratica del calcio totale. Come scrittore, invece, Brera è un fenomeno quasi mitico-magico. Se si prende la sua opera più ponderosa, la Storia critica del calcio italiano (che io possiedo nell´edizione Bompiani, ma non so se riuscirei a trovarla fra gli scaffali), un librone scritto probabilmente in non più di tre o quattro settimane, ci si accorge di una lingua che esce fluidissima, con uno stile personale e inventivo ma sempre rispettoso dell´oggetto. Era un asso anche quando descriveva un torneo internazionale di bocce alla periferia di Milano, spiegando con la coscienziosa umiltà del cronista le regole dell´accosto e della bocciata. Non l´hanno imitato solo i giornalisti sportivi. Lo imitano, forse inconsapevoli, anche i giornalisti degli altri settori, specializzati e generici. All´università, dico qualcosa di banale, sono finalmente riuscito a leggere Carlo Emilio Gadda, obbligatorio nel corso monografico di letteratura italiana, fingendo che fosse una superfetazione dello stile di Brera. In precedenza mi ero arenato diverse volte dopo una quarantina di pagine della Cognizione. Dopo, tutto liscio come un pirobutirro e saporito come un croconsuelo (anche se Brera non amava il Gran Lombardo: e accettava malvolentieri che Umberto Eco l´avesse definito «Gadda spiegato al popolo». «Gadda lavora di bulino», protestava, «mentre io devo usare la vanga!», cioè scrivere a braccio, contro il tempo, facendo a cazzotti con le colonne di spazio, il telefono, la macchina per scrivere, le chiusure). *** Ogni promessa è debito. Allora, il picaresco allenatore argentino Luis Carniglia viene a guidare il Bologna che fu di Fulvio Bernardini, sarà stato il 1967. Personaggio divertente già solo a vederlo, Carniglia: lo avreste subito detto un corsaro notturno, un bailador de tango, un pokerista, un croupier, un allibratore, il praticante di qualsiasi attività lecita o al margine dell´illecito, purché basata sull´azzardo e il bluff. Carniglia con i rossoblù infila alcune partite anonime, qualche zero a zero, vittorie risicate, una sconfittina, un pareggino. Al primo incontro di cartello, convoca una «conferensia estampa» con gli inviati dei grandi giornali sportivi e non sportivi. Quello che rompe il ghiaccio chiede: «Allora Luis, com´è il Bologna quest´anno?». Carniglia, con gli occhi ispanici semichiusi dal sospetto: «Informal o para la prensa?». Per la stampa, ovviamente, concedono i giornalisti. E lui, nella sua koinè lunfarda: «Es un equipo muy forte, che puede comodamente ganar el campeonado, gracias all´esfuerzo economico del señor presidente». Rimangono perplessi i grandi inviati, che ripensano alle grigie partite precedenti. Sicché uno dei più scafati gli fa: «Scusa, Luis: e...informal?». «Una mierda total». *** Epilogo. Quando poi finalmente ho incontrato Mariolino Corso, nel 2005 al premio intitolato a Peppino Prisco, organizzato a Chieti dal generale dei carabinieri Corinto Zocchi, ex comandante della stazione che presidiava San Siro, mi sono reso conto che lui ricordava soltanto vagamente che qualcuno gli aveva dedicato un libro. Ma soprattutto mi sono accorto che lo avevo descritto come mingherlino, esile, un abatino secondo la celebre definizione breriana; e invece anche lui è un bel signore alto un metro e settantotto, che per quei tempi di calcio in bianco e nero e di pali quadrati non era così poco. E bastava lasciarlo parlare, fra le personalità colossali di Candido Cannavò, Giorgio Tosatti e Bruno Pizzul, per ascoltare la vocetta fessa che talvolta si faceva sentire in allenamento quando allungava un pallone in profondità a Sandrino Mazzola, esclamando ironicamente: «Dàghe, Di Stefano!». Così è una vita, una carriera, una metafora: sul filo del fuorigioco, sul filo dell´ironia, semplicemente sul filo. Edmondo Berselli