La Repubblica 18/06/2006, pag.30 Nello Ajello, 18 giugno 2006
Petrolini, un idiota di talento. La Repubblica 18 giugno 2006. Settant´anni fa, il 29 giugno 1936, la morte raggiunse Ettore Petrolini
Petrolini, un idiota di talento. La Repubblica 18 giugno 2006. Settant´anni fa, il 29 giugno 1936, la morte raggiunse Ettore Petrolini. Arrivò scortata da alcune frasi a loro modo celebri. «Ammazzala, quant´è lunga st´agonia», aveva esclamato il protagonista. E poi aveva fulminato il sacerdote che gli si accostava, munito di olio santo: «Adesso sì che sono fritto». Seguì un´epigrafe patetica: «Che vergogna, morire a cinquant´anni!». Quest´ultima era una piccola bugia. Di anni, Petrolini ne aveva cinquantadue. Se ne era sempre tolti un paio: nato il 13 giugno del 1884, dichiarava di essere dell´86. Già da tempo si faceva compatire in palcoscenico con versetti autobiografici del tipo: «Petrolini è quella cosa / che fa ridere la gente. / Se gli piglia un accidente / non fa rider più nessun». E nel repertorio dei suoi nonsense aveva inserito l´ipotesi della propria morte come una battutaccia interrotta sul più bello: «Cose dette e ancor da dire / frasi fatte, frasi sfatte / desiderio di morire / salamini e caffellatte». Considerava con degnazione la malattia di cuore che l´avrebbe ucciso, quasi fosse una sua "spalla di scena": «la signora Angina», la chiamava. Ciò che non aveva previsto (ma si trattava d´un particolare) era che sarebbe scomparso il giorno della festa di San Pietro, il 29 giugno, appunto. «Ha voluto esse de Roma puro all´urtimo de la vita», osservò comunque Trilussa seguendo il feretro. Cattolico e apostolico, Petrolini s´era sempre dichiarato. Ma a proposito del suo "spirito di Roma" che ora più che mai gli veniva riconosciuto (o inflitto), usava replicare: «Romano certo che sono, ma non ho mai pensato di fare del teatro romanesco. Se fossi nato a Londra, a Parigi o a Berlino, avrei fatto ugualmente il teatro di Petrolini. Per grazia di Dio sono nato a Roma e così faccio Petrolini romano». Borioso, sfoggiava un umore sfottente, da impunito: un tratto, questo, assai capitolino. «Io sono bravo», proclamava, «pure quando dormo». Se la pigliava con chiunque volesse insegnargli qualcosa. Dei registi - all´epoca ce n´erano pochi - diffidava. E infatti Blasetti che nel 1930 girò il suo Nerone (con l´aggiunta dello sketch su Pulcinella e di quelli centrati sui "salamini" e su "Gastone"), riferiva che durante le riprese Petrolini era stato «così scopertamente e candidamente prepotente che non ci furono con lui né scontri né polemiche». Insomma, prendere o lasciare. Nei grandi attori della tradizione ottocentesca - da Modena a Salvini, dalla Ristori alla Duse - Petrolini scorgeva l´aplomb, per lui insopportabile, della cultura liberty e la presunzione del dannunzianesimo: usava perciò crocefiggerli in atroci parodie. Ne riproduceva i gesti di maniera, ad esempio «facendosi tremare la mano come Zacconi» quando dava la "cojonella" alle scene scespiriane più impegnative. Meno che mai apprezzava i divi e le divine del cinema, dall´aria morbidamente dissoluta stile primo dopoguerra: nel personaggio di Gastone scolpì il disprezzo che nutriva per loro. Chi osava attribuirgli qualche parentela professionale si sentiva rispondere: «Io discendo dalle scale di casa mia». Con un´aggiunta: «Sono contento che nessuno mi abbia insegnato a recitare. Perché così, non sapendo recitare, recito benissimo». Un´asprezza così intransigente non nasce a caso. Nell´antefatto del «più grande artista italiano» (tale lo considerava Bontempelli) c´erano un padre fabbro, un nonno falegname, «ommini spicci». E c´era stata la sua permanenza in tre riformatori. Il debutto, al café-chantant Gambrinus in piazza Termini - nel 1903, con lo pseudonimo di Ettore Loris - ebbe luogo quando in lui erano ancora vive le cicatrici di un´adolescenza turbolenta. Giggi er bullo, la macchietta d´esordio, somigliava al protagonista d´un sonetto di Trilussa, Er teppista: «Caccio er cortello, meno all´imprevista, / magno e nun pago e provoco la gente». Il primo suo impresario fece seguire al nome di Ettore, sulle locandine, la qualifica «buffone». Il suo repertorio era fatto di «colmi, lazzi, scherzi, inezie». Con qualche incursione nella volgarità: «Per i tuoi piedi d´amor mi consumo. / Il loro arcano, sublime profumo / m´inebria l´anima, mi fa svenir». Oppure, in tono più decisamente scurrile: «Sarà lungo il tuo amore, veramente? / lei mi chiedeva tra un bacio e una carezza. / E io le rispondevo dolcemente: / Vedrai tu stessa, cara, che lunghezza!». Nelle vesti di protagonista di Romani de Roma, avendo preso in moglie una ragazza di Alatri, asseriva d´aver sposato «un´alatrina», e così via. Lui stesso raccontava che nel baraccone-teatro di piazza Guglielmo Pepe (un luogo di Roma ora scomparso), pieno di lottatori, sirene, sonnambule e donne-serpente, il pubblico «mangiava i lupini rinsaviti nel sale e buttava le bucce sul palcoscenico». Lui, Petrolini, amava questo pubblico? Ugo Ojetti sosteneva di no. «Direi», precisava, «che l´ama ma non gli vuol bene, come in certi matrimoni tutti slanci d´amore, senza affetto e senza stima». Davanti a questi suoi fan, dei quali non ricambiava i sentimenti, egli inscenava furiosamente la favola della stupidità: un modo, per lui, di essere rivoluzionario (o almeno irriverente) sulla scena. «Petrolini», ha scritto Pietro Pancrazi, «ha avuto il coraggio di essere idiota; apertamente, liberamente e allegramente idiota». Il pubblico cambiava. In fretta. Già nel 1905 Petrolini recitava sui maggiori palcoscenici d´Italia. Nel 1908 creò al teatro Morisetti di Milano I salamini, la macchietta che consacrò l´effetto-idiozia con una battuta chiave: «Più stupidi di così si muore». Spuntarono nuove filastrocche e parodie, da Paggio Fernando, rifatto su un dramma di Giacosa, a Ma l´amor mio non muore, una presa in giro delle dive del cinema muto, a quella commedia, Chicchignola, nella quale tanti scorgono il suo capolavoro. Ci furono i trionfi nei teatri di Parigi, Londra, Berlino, Vienna, e le tournée in America del Sud. Tornò in patria celebre. Presto il suo stile venne collegato a sigle impegnative: in primo luogo, quella futurista. «Il puro umorismo futurista», scrisse Marinetti, «trionfa nell´arte di Petrolini. Egli uccide con i suoi lazzi il non mai abbastanza ucciso chiaro di luna». Di rado l´attore-autore si mostrava sensibile agli elogi. Essi, anzi, potevano suggerirgli moti di scherno. «Marinetti», cantava ad esempio, «è quella cosa / che facendo il futurista / ogni sera fa provvista / di carciofi e di patate». Ma politicamente, com´era l´inventore dei Salamini? «Il destino volle», ha scritto Vincenzo Cerami, «che Petrolini facesse rima con Mussolini dentro il gran librone nero del fascismo». Nei giorni della marcia su Roma l´attore romano era già un mito. Il buffone delle locandine s´era trasfuso nell´«uomo in fracche». E ambiva a riconoscimenti, invocando l´appoggio delle autorità. Aspettò tuttavia fino al 1929 per ottenere il grado - del tutto decorativo - di centurione della Milizia. Per una di quelle traversie burocratiche che deprimono (o mitigano?) anche i regimi più "rivoluzionari", a cinquant´anni, nel ’34, la carica però gli venne sottratta. Erano «sopraggiunti i limiti d´età». Lui ne fece un dramma. Per riottenerla, ricorse a Galeazzo Ciano, genero d´oro del regime. «Tu che mi conosci dalle origini del fascismo», gli scrisse, «non penserai che questa sia solo una mossa di vanagloria. Cosa non farei io per il Duce?». Tutto inutile: Petrolini non fu mai più centurione. I rapporti con Ciano proseguirono, comunque, affettuosi. I "petrolinisti" ricordano anche l´amicizia del loro eroe con altri gerarchi autorevoli, da Bottai a Balbo. Citano la dedica con la quale l´attore inviò a Mussolini la partitura della canzone Roma, in cui si esaltava il regime: «A Benito Mussolini, sole di Roma». Riportano una missiva nella quale egli risponde, emozionato, a un biglietto di plauso del dittatore: «Farò di tutto», promette, «per dimostrarvi che sono degno della lettera inviatami e della vostra alta considerazione». Un episodio da ridimensionare rimane quello che riguarda Nerone, di solito considerato una macchietta derisoria della finta romanità fascista e della stessa mimica del Duce. In realtà, quella macchietta Petrolini la recitava fin dal 1917, infastidito dalla moda cinematografica dei Quo vadis di cartapesta, dalla quale il fascismo - questo sì - avrebbe tratto larga ispirazione. «A voler essere pignoli», ha scritto nel 1992 Oreste Del Buono, «si potrebbe casomai affermare che successivamente fu Mussolini a prendere sul serio la maschera di Petrolini e non il contrario». La prese sul serio? Qualche testimone sostiene che, assistendo alle recite del Nerone, Mussolini ridesse coprendosi il viso con un fazzoletto. Il divino buffone non era mai univoco e prevedibile. Nella sua Checchignola c´era una parodia del maschilismo del regime. In un altro sketch egli veniva in scena con le mani piene di limoni, alludendo al caso Girolimoni, una storia di pedofilia che aveva sconcertato il regime. Nei viaggi a Parigi incontrava i fuorusciti antifascisti. Invitato per una cerimonia a palazzo Venezia, vi portò in omaggio un sanpietrino: proprio un «sercio». Più romano di così. Dopo aver ottenuto a palazzo Venezia una medaglia, se ne uscì con un sonante «E io me ne fregio!», parafrasando l´oltraggioso motto fascista. Senza arrampicarsi sulla spirale delle sue contraddizioni, d´altronde, Petrolini come sarebbe riuscito ad essere Petrolini? Nello Ajello