Corriere della Sera 18/06/2006, pag.27 Sergio Romano, 18 giugno 2006
Il ritorno di Al Gore, difensore dell’ambiente. Corriere della Sera 18 giugno 2006. Dando un’occhiata ai giornali degli Stati Uniti scopro che si sta rimettendo in buona luce un personaggio politico americano da me sempre stimato, Al Gore
Il ritorno di Al Gore, difensore dell’ambiente. Corriere della Sera 18 giugno 2006. Dando un’occhiata ai giornali degli Stati Uniti scopro che si sta rimettendo in buona luce un personaggio politico americano da me sempre stimato, Al Gore. Ricordo che durante l’elezione che portò alla vittoria di Bush, in un’intervista il giornalista scrisse che Al Gore avrebbe creato un mondo migliore, Bush uno peggiore. Da allora mi chiedo: se avesse vinto Al Gore davvero oggi il mondo sarebbe diverso? E poi: che possibilità ha Al Gore di diventare presidente nel 2008? Daniele Palermo Caro Palermo, anch’io ho notato con interesse che Al Gore è uscito dall’ombra, ha realizzato un documentario di successo sul suo tema preferito (la difesa dell’ambiente), lo ha presentato in giro per l’America con molti consensi e sembra essere tornato in lizza per le presidenziali del 2008. Quando venne in Italia nel marzo 2001, per un incontro con gli studenti della Bocconi organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera, ebbi con lui una specie di conversazione-intervista nell’aula magna dell’università. Parlammo dei Protocolli di Kyoto, dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione del commercio mondiale, del nazionalismo russo, delle virtù e dei vizi di Internet, della mucca pazza, dei rapporti fra Stato e Chiesa nella democrazia americana, delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, della pena di morte e del terrorismo internazionale. Conosceva i problemi e parlava come un uomo che non ha rinunciato alla vita politica. Dei molti temi toccati nel corso della conversazione quello che maggiormente lo appassionava era l’ambiente e soprattutto il modo in cui l’umanità avrebbe dovuto difenderlo dalla minaccia dell’industrializzazione incontrollata. Quando gli ricordai che l’amministrazione Bush aveva manifestato l’intenzione di dare il via alle trivellazioni petrolifere in Alaska, rispose duramente: « una questione politicamente esplosiva. La decisione spetterà al Congresso. Io chiaramente sono contrario». Non c’è dubbio, era un ecologista convinto, l’erede politico del movimento che era nato in California durante gli anni della contestazione studentesca e aveva finalmente trovato nella presidenza Clinton qualcuno disposto ad ascoltare. Sapevo tuttavia che molte attese erano state tradite. Al Gore aveva negoziato, per incarico del presidente, i Protocolli di Kyoto e poteva legittimamente rivendicarne la paternità. Ma a Washington, dopo la fine delle trattative, i Protocolli si erano insabbiati e Clinton non aveva fatto nulla per promuoverne la ratifica da parte del Senato. Non basta. In un articolo recente apparso nel Financial Times («The inconvenient truth about Gore», la scomoda verità a proposito di Gore, 1 giugno 2006), leggo che nella campagna contro Bush per le presidenziali del 2000, il vice di Clinton dette minore importanza ai temi ambientali ed evitò di drammatizzare le minacce dell’inquinamento. Non è sorprendente. Al Gore sapeva che esiste in America una potente lobby industriale e petrolifera, pronta ad aiutare anche finanziariamente il candidato che presta maggiore attenzione ai suoi interessi; e non voleva essere considerato un nemico. Fra il militante ecologico e l’uomo politico a caccia di voti vi è una inevitabile differenza. Lei si chiede, caro Palermo, se la vittoria di Gore nelle elezioni del 2000 avrebbe cambiato il corso delle cose. Durante la conversazione del 2001 constatai che era perfettamente consapevole della minaccia terroristica. Ricordò gli attentati in Kenia e in Tanzania, la temporanea chiusura dell’ambasciata americana a Roma qualche mese prima. Del regime talebano in Afghanistan disse che era «corrotto, violento, misogino» e che si era «macchiato di un grave crimine contro il patrimonio artistico e storico di tutto il mondo come la distruzione dei Buddha scavati nella montagna». Aggiunse: «I talebani sono anche in lotta con gran parte del mondo islamico, sono pazzi». Se l’11 settembre fosse stato presidente, Gore avrebbe probabilmente trattato la questione afghana nel modo in cui fu trattata da Bush. Ma non credo che avrebbe seguito, contro Saddam Hussein, una linea simile a quella del suo successore. L’invasione dell’Iraq venne decisa dall’amministrazione repubblicana subito dopo l’11 settembre e fu in gran parte il risultato dell’enorme influenza che i neoconservatori avevano in quel momento sul nuovo presidente. Gore avrebbe avuto altri consiglieri e collaboratori, uomini e donne con una diversa percezione degli affari internazionali. Ha qualche possibilità di tornare in campo per le prossime presidenziali? possibile. Ma le consiglio di seguire attentamente d’ora in poi i movimenti di Hillary Clinton e la curva dei sondaggi sulla sua popolarità. Se Gore ha davvero intenzione di tentare nuovamente la sorte, sarà lei, Hillary, il suo principale avversario nella battaglia per la candidatura democratica. Sergio Romano