Corriere della Sera 17/06/2006, pag.29 Sergio Luzzatto, 17 giugno 2006
Il gigante e il dittatore Campioni dai piedi d’argilla. Corriere della Sera 17 giugno 2006. «Il suo torso è possente, le braccia atletiche
Il gigante e il dittatore Campioni dai piedi d’argilla. Corriere della Sera 17 giugno 2006. «Il suo torso è possente, le braccia atletiche. Sembra fatto per abbattere e per stritolare; e su questo rigoglio di muscoli e di nervi, su questa compattezza erculea si ferma la nostra immaginazione, perché noi sentiamo che nessuno può vincerlo, che nessuno può sostenerne il confronto: gigante tra i pigmei». Ma di chi sta parlando Adolfo Cotronei, firma di punta della Gazzetta dello Sport edel Corriere della Sera nei primi anni Trenta? Sta parlando forse di Primo Carnera, il solo pugile italiano capace di conquistare lo scettro di unico campione mondiale dei pesi massimi, 205 centimetri di altezza per 125 chili di peso? No, Cotronei sta parlando, sul Popolo d’Italia, del metro e sessantotto e dei settanta chili di Benito Mussolini. La vita di Carnera, che lo storico Daniele Marchesini ha raccontato ora in un libro godibile come un romanzo, è contenuta tutta in questo equivoco: nel dover incarnare la figura del campione nello sport fisico per eccellenza, il pugilato, durante gli anni in cui l’Italia voleva sentirsi incarnata nel corpo del più fisico tra gli uomini di Stato, il Duce. La vita di Carnera è dunque la storia vera di un’immensa bugia. la favola prima triste, poi bella, poi triste di un gigante buono del Friuli che la propaganda fascista elevò a icona della «razza Piave» per sublimare il destino di un popolo di emigranti, incolti e denutriti, che Mussolini pretese di trasformare magicamente in «popolo di cazzottatori». Nato nel 1906 a Sequals, fra Pordenone e Udine, Primo Carnera non aveva trovato in famiglia risorse sufficienti per crescere il suo corpo eccezionale: otto chili (si favoleggiava) alla nascita, trenta chili a tre anni, un metro e ottanta a undici anni, e poi su su fino al cielo dei due metri in un’Italia dove l’altezza media dei maschi alla visita militare non superava i 167 centimetri. Fenomeno da baraccone, Carnera, con il suo mezzo metro di circonferenza del collo, il pugno da 38 centimetri, le scarpe numero 52... Infatti, proprio da un baraccone Carnera cominciò la propria carriera, nella Francia degli anni Venti dov’era emigrato senza un soldo in tasca: recitando gag da forzuto nelle piazze di paese. E in maniera simile la sua carriera si sarebbe conclusa, quarant’anni dopo, negli Stati Uniti d’America: sui ring della lotta libera, nel mondo finto del wrestling. In mezzo, dal 1928 al 1937, i dieci anni di un’avventura straordinaria. Un manager francese, mezzo istruttore di boxe e mezzo editore di giornali, che scopre Carnera al circo, lo porta a Parigi, decide di programmarlo come campione mondiale dei pesi massimi quando nel firmamento pugilistico si è appena spenta la stella di Jack Dempsey ed è ancora lontana dall’accendersi quella di Joe Louis. Carnera, che impara direttamente sul ring i suoi colpi migliori, montante destro, jab sinistro, e che nonostante la propria ingestibile stazza vince un match dopo l’altro, in Francia, in Europa, in America. Il 29 giugno 1933, a New York, Carnera che conquista il titolo dei massimi battendo Jack Sharkey per ko. Il trionfale ritorno in Italia, i contratti pubblicitari come testimonial dei prodotti più vari, dagli aperitivi ai vestiti, dalle macchine da cucire ai regolatori intestinali. I due milioni di dollari guadagnati in un decennio, salvo ritrovarsi come il più proverbiale dei pugili suonati: il fisico a pezzi, i debiti con le banche, gli ex manager arricchiti e lontani. Nel 1934, mentre Carnera era all’apice della fama, il suo scopritore francese, Léon Sée, pubblicò da Gallimard un libro-scandalo, Le mystère Carnera, dove rivelò quanto gli addetti ai lavori avevano sospettato da subito: la maggioranza delle vittorie ottenute dal pugile nel suo cammino di gloria erano state il frutto di combines, cioè di incontri truccati. Al di qua delle Alpi, la propaganda fascista riuscì peraltro a tacitare gli echi di un libro che ci si guardò bene dal tradurre. Dall’inizio degli anni Trenta le soddisfazioni non erano mancate, e continuavano a venire. Dagli sport di squadra, grazie alle imprese calcistiche di Meazza e di Piola. Dai motori, grazie alle imprese aviatorie di Balbo e alle imprese automobilistiche di Nuvolari. Ma i trionfi di Carnera valevano più di ogni altro successo sportivo, erano paragonabili soltanto ai trionfi del Duce: perché in un caso come nell’altro, la vittoria individuale riscattava un destino collettivo. Alla vigilia della guerra d’Etiopia, mentre il fronte «plutocratico» proibiva all’Italia di ritagliarsi un «posto al sole», nessuna favola valeva altrettanto che la parabola congiunta dell’emigrato romagnolo divenuto statista e dell’emigrato friulano divenuto «pugilatore». Per questo, il corpo di Carnera riusciva intercambiabile con il corpo di Mussolini, i due italiani più famosi al mondo avevano bisogno di somigliarsi fino a confondersi. Del resto, la prova di una natura una e bina non era data forse dalla loro straripante virilità, dalle innumerevoli conquiste femminili che la vox populi attribuiva ora a Carnera, ora a Mussolini? E al di là delle prodezze d’alcova, non era forse rivelatrice la scelta del Duce di porre i suoi figli maschi, Bruno e Vittorio, ai vertici della Federazione pugilistica italiana? Se la «razza Piave » di Carnera poteva prendere a pugni i pesi massimi del Madison Square Garden, la razza Mussolini non doveva forse prendere a pugni i pesi massimi della Società delle nazioni? Ecco quanto gli italiani sentirono ripetere un milione di volte fra il 1933 e il 1936, fra il trionfo sportivo di New York e il trionfo militare di Addis Abeba. Salvo scoprire negli anni seguenti che il parallelo tra la fiaba di Carnera e la fiaba di Mussolini andava condotto sino in fondo: sino alla ricaduta di entrambi nella polvere dalla quale erano partiti. Nel caso del pugile, la nemesi della razza assunse le fattezze di un ebreo e di un negro: rispettivamente Max Baer, che nel giugno del ’34 sottrasse a Carnera il titolo mondiale, e Joe Louis, che nel giugno dell’anno successivo gli inflisse una sconfitta così netta da decretarne il tramonto. Nel caso dello statista, la nemesi della razza sarebbe venuta tempo dopo: quando un esercito fatto anche di ebrei e di negri si sarebbe incaricato di sloggiarlo dai saloni di Palazzo Venezia e poi di inseguirlo fin sulle rive del lago di Como. «Non pubblicare più, fino a nuovo ordine, fotografie riguardanti il Duce», ordinerà una velina del Minculpop nel novembre del 1943, nel tentativo impossibile di nascondere agli italiani la rovina fisica e politica di Benito Mussolini. «Non pubblicare fotografie di Carnera a terra», aveva ordinato una velina di regime già nell’estate del 1935, nell’improbabile sforzo di nascondere agli italiani la disfatta del pugile friulano contro Louis: le terribili foto di un uomo bianco, stordito e insanguinato, in ginocchio davanti a un illeso uomo nero. Sergio Luzzatto