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 2006  giugno 18 Domenica calendario

Come ti rovino la vita. L’arte della calunnia. Corriere della Sera 18 giugno 2006. Trovo fra i miei ricordi personali quattro episodi in cui la calunnia ebbe una parte determinante

Come ti rovino la vita. L’arte della calunnia. Corriere della Sera 18 giugno 2006. Trovo fra i miei ricordi personali quattro episodi in cui la calunnia ebbe una parte determinante. Proverò a raccontarli e a spiegare quali siano state allora le mie reazioni. Nel 1964 ero nel gabinetto di Giuseppe Saragat, divenuto da poco ministro degli Esteri. Quando fu eletto alla presidenza della Repubblica, in dicembre, lo seguii al Quirinale. Il suo addetto stampa era Ettore Staderini, che Saragat aveva conosciuto a Parigi, dopo la fine della guerra, nel breve periodo durante il quale era stato ambasciatore in Francia. Staderini apparteneva a una vecchia famiglia romana di notai e tipografi, parlava con un elegante accento romanesco, era ironico, intelligente, scettico e disincantato. Ma ungiorno proclamò una specie di ukaz: occorreva evitare che Saragat venisse fotografato con un bicchiere in mano. Si era sparsa la voce che «alzava il gomito» e che vi erano momenti in cui non riusciva a controllare se stesso. Non me n’ero mai accorto. Sapevo che aveva un carattere impulsivo e che cedeva alla tentazione di sfogare i suoi malumori con una sfuriata. Ma avevo conosciuto altre persone, prima di lui, che avevano gli stessi difetti. Di lì a pochi mesi, tuttavia, nonostante gli ukaz di Staderini, la Roma politica era convinta che Saragat fosse un ubriacone. Qualche anno dopo, mentre ero al Quirinale, raccolsi un’altra voce, ancora più calunniosa, che concerneva Cesare Merzagora, presidente del Senato fino al novembre del 1967. Le voci dicevano che il suo yacht in Costa Azzurra era diventato un ritrovo per feste segrete e piaceri inconfessabili. Non avevo mai incontrato Merzagora, ma conoscevo l’ambiente imprenditoriale in cui aveva conquistato la sua reputazione e ricordavo la sua politica antiprotezionista al ministero del Commercio estero dopo la fine della guerra. Mi sembrò incredibile. Ma dovetti constatare che la voce era creduta vera anche da persone per cui avevo stima e fiducia. Da Roma andai a Parigi. Arrivai nel maggio del 1968, in tempo per assistere alla fine della presidenza del generale de Gaulle e alla vittoria di Georges Pompidou nella campagna elettorale del 1969. Poco tempo dopo, le redazioni dei giornali cominciarono a ricevere fotografie scattate durante festini orgiastici in cui si vedevano tra l’altro, apparentemente, i volti di madame Pompidou (una signora alta, magra, elegante, ma non più giovane e bella), di un playboy jugoslavo e di Alain Delon. Nessuna di quelle fotografie venne pubblicata e molti sostennero che erano state visibilmente truccate. Ma il tam tam dei salotti e delle redazioni continuò per qualche mese ad arricchire la vicenda con particolari sempre più piccanti. Tornai a Roma quasi 10 anni dopo, nel dicembre 1977. Era scoppiato lo scandalo Lockheed. Tre uomini politici (Luigi Gui, Mario Tanassi e Mariano Rumor) erano stati accusati di avere ricevuto tangenti per la conclusione di un contratto fra l’Aeronautica militare e l’azienda americana. In un documento emerso nel corso delle indagini un altro uomo politico era indicato con un nome in codice: Antilope Cobbler. Si cominciò a sussurrare che Antilope fosse Giovanni Leone, allora presidente della Repubblica, e il sussurro, nel giro di qualche mese, divenne un boato. Avevo conosciuto Leone a Parigi quando aveva fatto una visita ufficiale a Pompidou, e mi era parso uomo affabile, bonario, un po’ troppo partenopeo, tutto fuorché un corrotto o un corruttore. Ma di lì a qualche mese Leone fu costretto a dimettersi. Se cerco di tornare con il ricordo alle mie reazioni di allora devo confessare che la tentazione di prestare fede a quelle calunnie fu molto forte. Non avevo mai visto Saragat ubriaco. Ero interessato dalla personalità di Merzagora e sapevo che le sue ambizioni «golliste» avevano scatenato l’ostilità di una parte della classe politica. Sapevo che Pompidou era odiato da settori militanti del gollismo di sinistra e che alcuni compagnons del generale de Gaulle lo consideravano un opportunista, un reazionario, un «passeggero clandestino». Non riuscivo a immaginarmi Leone nei panni del politico corrotto. Ed ero più di altri, per molti versi, in grado d’intravedere dietro questi bisbiglii un disegno politico: intralciare la politica di riunificazione socialista che il leader socialdemocratico avrebbe fatto durante la prima metà della sua presidenza, screditare la battaglia contro il regime dei partiti che Merzagora stava conducendo da qualche tempo sempre più esplicitamente, pregiudicare l’efficienza della presidenza Pompidou al vertice dello Stato, immolare Leone sull’altare del compromesso storico fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Ma ero insidiato da due tentatori: l’apparente autorevolezza e serietà di coloro che si prestavano alla diffusione delle voci, e il timore di fare la figura dell’ingenuo. In ultima analisi è il timore di apparire sciocchi che spinge uomini e donne a credere nelle più pericolose sciocchezze. Sergio Romano