Liberazione 17/06/2006, pag.1-9 Rina Gagliardi, 17 giugno 2006
Cronaca dei 47 giorni di una matricola in Senato La domanda è quella di Chatwin: che ci faccio io qui? Liberazione 17 giugno 2006
Cronaca dei 47 giorni di una matricola in Senato La domanda è quella di Chatwin: che ci faccio io qui? Liberazione 17 giugno 2006. «Vedrai, sarà una vita di tutto riposo. Il Senato è un posto tranquillo, raffinato, dove non succede mai niente, si lavora poco, si mangia bene». Mi aveva detto così, diversi mesi fa, un caro amico, un ”vecchio” giornalista parlamentare dell’Unità che a Montecitorio è quasi un’istituzione, Giorgio Frasca Polara. Aveva torto. Palazzo Madama è sì una gioia per gli occhi (e anche per lo stomaco), ma politicamente è diventato un luogo di pena. Notti fa, alla vigilia della seduta che doveva votare la costituzionalità del decreto 181 (lo stesso su cui Prodi ha deciso di mettere la prima fiducia, temo, di una lunga serie), mi sono svegliata in un bagno di sudore: nel sogno, non facevo altro che mandare in tilt leve e bottoni, con blackout sinistramente colorati che si succedevano all’infinito e facevano esplodere strani congegni. A riprova, ci fu la giornata, cioè il pomeriggio di martedì: dove sono poi riuscita a non sbagliare, e ad avere ragione di quegli invisibili bottoncini verdi e rossi. Ma che stress! E che paura. Prima che politica - lo confesso - la mia paura è fisica. Quando dagli spalti del centrodestra si levano le urla, una specie di coro barbaro incomprensibile, e le braccia dei leghisti e dei forzitalioti si tendono in avanti, e i pugni battono e ribattono cupamente, e Storace grida più di tutti, mi viene un soprassalto. Mi accartoccio nel mio banchetto aspettando che passi, mi ripeto che, certo, questo è tutto e solo teatro, mi concentro con lo sguardo sul ”mio” presidente, Franco Marini e i suoi invidiabili nervi d’acciaio - ma i brividi restano. Dio mio, se succede questo su una questione importante, sì, ma non epocale come il riordino dei ministeri, che cosa succederà domani, dopodomani, quando arriveranno in quest’aula faccenduole come l’Iraq e l’Afghanistan, il Dpef, la manovra economica? In momenti come questi, la nostalgia del giornale - un luogo protetto, nonostante tutto, e di alta civiltà umana - si fa più intensa. Ed eccola qui, a due mesi e mezzo dalle elezioni, a quasi un mese dalla nascita del governo Prodi, la dura vita privilegiata di una senatrice comunista. La maggior fatica, finora, è stata quella di...non lavorare. Proprio così: in quarantasette giorni di vita parlamentare, ci sono state una dozzina, forse, di votazioni, quattro sedute d’aula, un paio di sedute congiunte, due riunioni di commissione. D’accordo, questo ritmo è stato dettato dagli adempimenti istituzionali, e dalle due settimane di interruzione, tra amministrative e referendum, della vita parlamentare. D’accordo, i più anziani ti guardano con un’arietta tra i cinico-vissuto e l’ironico - ti senti terribilmente naive, tuo malgrado. Che ci sia qualcosa, in tutto questo, che non funziona ”in sé”, a prescindere dal clima politico, dalla campagna elettorale permanente, dall’intergruppo cattolico-integralista, dai problemi dell’Unione? La fatica del ”non lavoro” parlamentare, oltretutto, è il tempo infinito che esso occupa: il tempo dell’attesa, dello stare e del sostare, del girare tra una stanza e l’altra, beccando gli ascensori giusti ed evitando di perdersi nei meandri del palazzo. Il tempo delle chiacchiere, delle conversazioni, delle ”relazioni”, quello, certo, non è mai sprecato (alla bouvette, elegante come un bar d’antan, i ”colleghi” della destra non sono più mr. Hyde e si trasformano in gentili signori che ti offrono il caffè). Resta la sensazione di una struttura - l’istituzione - che ti sovrasta, ti inghiotte, ti spersonalizza, ti domina. Molto soft nella sua ordinaria e avvolgente ”materialità”, nella cortesia diffusa, nella gentilezza della ritualità. Rigidissima e anzi granitica, però, nel suo funzionamento politico - è difficile il solo pensiero di riuscire a scalfirne qualche punto, qualche modesto equilibrio. Si capisce un po’ meglio, forse, dove nasce la smania protagonistica di tanti parlamentari, senatori e non solo, la malattia delle esternazioni, la furiosa presentazione di proposte di legge destinate per lo più a rimanere ammucchiate chissà dove, il bisogno quotidiano di dichiarare, apparire, essere intervistati: nasce in questa ”Tecnomacchina” cinquecentesca e postmoderna, dove fare politica, per ora, è quasi impossibile. L’esistere è altrove - un titolo di giornale, una presenza televisiva. L’esistere è se mai nello ”stato nascente”, l’inizio, la speranza, l’annuncio, il passaggio. Come quando siamo riusciti a vincere la battaglia della presidenza, dopo diciotto ore filate di scontro - o quella della fiducia a Prodi, tra i fischi e gli starnazzamenti. E poi? Poi si vedrà. Forse ha ragione Rocco Bottiglione - l’altro giorno, mentre ci si scontrava sulle staminali, le ”pretese di onnipotenza della scienza” e il rapporto tra Dio e le leggi, ha sfoderato il suo sigaro e mi ha detto che «in realtà, è tanto più divertente stare all’opposizione che al governo. Noi abbiamo solo il compito di mettere in fila qualche discorso più o meno coerente, voi dovete invece risolvere i problemi». *** Naturalmente, i problemi essenziali sono e restano quelli politici. Eppure, il confine tra antropologia e politica mi appare spesso alquanto sottile. Il Senato, per dire, è davvero un’istituzione patriarcale: ovvero abitata quasi soltanto da maschi attempati, calvi, grassocci. Le donne sono poche, a parte noi di Rifondazione, a parte qualche banco dell’Ulivo - e al fondo si sentono tutte ospiti. Lo avverti più dai ”microsegni” che nei grandi e solenni momenti istituzionali: i banchi costruiti in modo tale che, se non sei di grande statura, rimani con i piedi sospesi per aria; le toilette per signora che scarseggiano, e per trovarne una devi scarpinare per corridoi lunghissimi; ed una struttura, insomma, tutta e sempre ”grande”, magniloquente, anche nei mobili, nei tavoli, nelle scrivanie. Loro, i senatori, tendono a configurarsi come un aggregato militare: nel senso che indossano una divisa. Completo scuro, blu o grigio, cravatta regimental per lo più azzurra, a parte quella verde di Calderoli che almeno offre una macchia diversa di colore. Alle senatrici invece non è concesso questo comodo riparo - sono costrette ad inventarsi un tailleurino diverso, mai troppo vistoso, specie se capitano (di rado, ma capitano) due giornate di ”lavoro” di seguito. Anche questi frivoli dettagli, nel loro piccolo, ti rinviano a un problema più generale di identità. Anche lo spreco di spazio - sale e saloni di rappresentanza, corridoi, stanze spesso troppo grandi, penuria di luoghi raccolti - ti dice che questo Palazzo è stato concepito da menti maschili e destinato al genere maschile. Nulla di nuovo, certo. Ma si capisce un po’ meglio, un po’ più da vicino, perché in questo ramo del parlamento ci sia, politicamente parlando, una ”zona grigia” così diffusa, e sfuggente. I pallaro, i de gregorio, i fuda, e chissà quanti altri. Quei senatori eletti nell’Unione, con la faccia da boss democristiano degli anni ’50, che si siedono, ogni volta, un po’ più a destra, un po’ più vicini a quelli della Cdl. Quelli che parlano sempre negli angoli, sottovoce. Quelli che non ti sorridono mai, neanche quando li incontri alla posta e ritiri il tuo mucchio - del tutto impersonale - di corrispondenza. Quelli che passano il tempo negli intergruppi trasversali, cioè lobbies - ce ne sono per tutti i gusti, gli amici della montagna, del mare, dell’ippica, della moto, dei commercianti, delle coroporazioni. Se e quando si constaterà che la tenuta della maggioranza dipende da loro, sarà davvero un brutto momento. Non solo per le ragioni politiche generali che a chiunque sono evidenti, ma per una questione di fondo che attiene alla qualità della politica e della rappresentanza. Ecco, la vera fatica dell’”essere senatore” (o deputato), per una di noi, è questa convivenza tanto forzata quanto innaturale - mi ci abituerò, spero. Ma la domanda di Bruce Chatwin continua ad affacciarsi alla mente, anche se la scacci: ”Che ci faccio qui? ” Rina Gagliardi