Note: [1] Riccardo Barenghi, La Stampa 17/6; [2] Cristina Zagaria, la Repubblica 17/6; [3] Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 17/6; [4] Maria Laura Rodotà, Corriere della Sera 17/6; [5] Mattias Mainiero, Libero 17/6; [6] Libero, 17/6; [7] Maria Corbi, La , 17 giugno 2006
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 19 GIUGNO 2006
«Non si arresta un Re innocente. Speriamo non lo sia» (Riccardo Barenghi). [1] Venerdì, a Villa Cipressi di Varenna, sul lago di Como, Vittorio Emanuele di Savoia è stato arrestato su ordine del gip di Potenza Alberto Iannuzzi, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal pm Henry John Woodcock. Accuse: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, al falso e allo sfruttamento della prostituzione. Con lui sono finite in manette altre 12 persone: tra queste Salvatore Sottile, portavoce del’ex ministro degli Esteri Gianfranco Fini, e Roberto Salmoiraghi, sindaco di Campione d’Italia. [2]
Figlio di Re Umberto II, Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria (Totò) è nato a Napoli il 12 febbraio 1937. Bambino, dovette lasciare prima il Quirinale, poi l’Italia, costretto a un esilio che sarebbe finito solo nel 2002. Aldo Cazzullo: «La malinconia e la gravità del padre Umberto gli sono sconosciute. La principessa Maria Gabriella non lo invita a una festa campestre, e Vittorio Emanuele sale sull’aereo per bombardarla di pomodori (è lui stesso a raccontarlo nell’autobiografia). La madre Maria José gli parla della Ferrari del fratello Leopoldo del Belgio, e lui per impressionarla guida a 250 all’ora sull’autostrada per Reims. All’esilio austero in Portogallo preferisce quello mondano in Svizzera, lo chalet di Gstaad, la villa di Ginevra con 30 stanze e piscina coperta». [3] Maria Laura Rodotà: «A noi è toccato in sorte il pretendente reale peggiore. Impresentabile anche come figura da rotocalco». [4]
L’8 giugno, ospite a ”Porta a Porta” assieme alla moglie e al suo legale, Vittorio Emanuele aveva chiesto alla Repubblica italiana la restituzione dei gioielli di famiglia e la possibilità di essere finalmente un cittadino con tutti i diritti e i doveri degli altri cittadini, compreso il diritto di condurre affari sul territorio nazionale. Mattias Mainiero: «Il principe non può comprare in Italia neppure un motorino». [5] Libero: «Il nome di Vittorio Emanuele, negli ultimi anni, ha sempre fatto rima con contenzioso. Con la richiesta di restituzione dei beni appartenenti a casa Savoia, confiscati dalla Repubblica Italiana dopo il referendum e l’esilio del 1946. I numeri sono da capogiro: tra ”case, terreni, palazzi e gioielli”, il patrimonio sosteneva il figlio di Umberto II si aggira ”ufficiosamente sui 15 miliardi di euro”. Solo per dirne una, Vittorio Emanuele pretende di entrare in possesso della polizza sulla vita stipulata presso i Lloyd’s di Londra da Umberto I: nel 1946 il suo valore era calcolato in 6 milioni di dollari. Cifre enormi, ma in alto mare. Mai viste da quel Vittorio Emanuele che ha sempre precisato è stato obbligato ”a lavorare da quando avevo 9 anni”». [6]
Per condurre una vita ”regale” bisognava lavorare. Libero: «Così, sfruttando le sue influenti amicizie in tutta Europa, divenne uomo d’affari. Cosa faceva? In poche parole si poteva definire un mediatore di lusso tra le imprese occidentali legate agli Stati con i potentati del Medio Oriente. Negli anni Settanta il principe costituì quella che ora chiameremmo joint venture con Corrado Agusta, l’ex marito della contessa Francesca Vacca, allora padrone di una fabbrica di elicotteri e mercante internazionale d’armi. Agusta sfruttò i contatti del figlio del – re di maggio” per vendere i suoi prodotti». [6] Con quelli del suo rango, Vittorio Emanuele ha avuto negli anni molti problemi. Al matrimonio del principe Felipe di Spagna con Letizia Ortiz mise ko al con un pugno sul naso il cugino/rivale Amedeo di Savoia duca d’Aosta, suo avversario per la riconquista di un improbabile trono (re Juan Carlos: «Mai più a casa mia»). [7] Pierangelo Sapegno: «Già da bambino, non doveva essere il prediletto di re Umberto, che nel ’69 poi si arrabbiò con lui perché non voleva che sposasse Marina Doria. Siccome Vittorio Emanuele fece di testa sua, il re padre non gli conferì nessun titolo per ripicca». [8]
Con la moglie, figlia di un imprenditore, ex campionessa di sci d’acqua, si sposarono nel ’71 in Iran (si erano conosciuti al Club nautico di Ginevra). Hanno avuto un figlio, Emanuele Filiberto. Roberto D’Agostino: «Marina ”Boria” - così viene nomignolata dagli ”addetti ai livori”. Mezzo mondo la sopporta stoicamente, contemporaneamente tutti gli altri ne parlano malissimo. Volto indurito dal bisturi, tono di voce secco come un cassetto chiuso col ginocchio, Marina sembra rappresentare, per la gente comune ma anche per quella di potere, l’incubo sado-maso della governante inflessibile, della mamma severa, dell’insegnante sadica, dell’aguzzina religiosa, dell’infermiere che annuncia ”adesso vieni qui che mettiamo la supposta!”». [9] Alfonso Signorini: «La vera regina, la virago di casa Savoia è lei. A cominciare dal look, studiato al dettaglio. I suoi tailleur pantaloni, gessati e non, griffati Gai Mattiolo, la rendono più simile a una donna manager che a una principessa. Il suo chignon con mèches a banda larga è quello delle mamme, o meglio delle nonne, che tutti amiamo. I gossip di palazzo la vogliono desnuda dormiente, come una Maya tutta nostrana. Ma Marina nella sua umanità, nella sua algida compostezza, e soprattutto negli sguardi preoccupati con cui segue ogni sortita degli uomini di casa sua, vince». [10]
A fine marzo le sorelle Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice di Savoia si erano dimesse dall’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, quello che dal 1500 è guidato da conti, duchi e re della dinastia Savoia («ha introdotto il pagamento di una quota associativa, attività come la vendita di oggetti con lo scudo sabaudo o le carte di credito dell’Ordine»). [11] Maria Gabriella (con un tono che va dall’indignato all’arrabbiato, dal triste allo sconcertato): «Non mi aspettavo tanto, ma era prevedibile che sarebbe successo qualcosa perché frequentava gentaglia, la feccia». E poi: «Mi fa pena ma è un credulone e il figlio è un arrivista, la moglie Marina è interessata al denaro, non le basta mai, venendo da una famiglia di imprenditori falliti voleva sempre di più. In lei c’è una forma patologica. Io dicevo sempre che non potevano frequentare persone di terz’ordine e nulla altro, che non era possibile, che un giorno o l’altro sarebbe successo qualcosa. Vittorio si fa usare ed è lei che decide tutto». [12]
Tra Vittorio Emanuele e la giustizia è stato un continuo batti e ribatti. Leonardo Coen: «Già negli anni ’70 ebbe noie grosse a causa d’un traffico d’armi scoperto dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia ma fu il magistrato che finì per avere la peggio: venne trasferito a Roma, aveva osato ficcare il naso su affari che coinvolgevano lobbies troppo potenti e protette. Tutto si concluse nella solita bolla di sapone. Di certo, in quel giro c’era chi spendeva il nome di Vittorio Emanuele, e qualcuno gli avrà pur detto che poteva farlo: del resto, l’erede al trono dei Savoia si era fatto una reputazione vendendo allo Scià Reza Pahlevi, di cui era buon amico, elicotteri prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riapparivano armati di tutto punto in Sudafrica, a Singapore, in Malesia, a Taiwan, triangolazioni che l’Onu metteva spesso sotto accusa». [13]
Andò peggio una sera d’agosto del 1978 in quel di Cavallo, isolotto per vacanze miliardarie e per faccendieri ozianti. Coen: «Stavolta la cronaca si interessò di un’altra burrascosa amicizia, quella con Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei medici più noti e ricchi di Roma: Vittorio Emanuele era geloso della bellissima moglie Marina Doria, quella notte si sbronzò e litigò furiosamente con Nicky a tal punto che scese sottoponte della sua barca e ne riemerse armato di un fucile. Sparò e colpì un giovanotto tedesco, Dirk Hamer. Era il 18 agosto del 78. Il ragazzo non aveva vent’anni. Morirà, dopo atroci sofferenze (gli amputarono persino una gamba pur di salvarlo), il 7 dicembre. Fu una vicenda oscura. Ma qualche anno dopo, nel dicembre del 1991, al processo di Parigi fu assolto dalla Chambre d’accusation: niente omicidio volontario, solo una lieve condanna a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco». [13] Cazzullo: «Neppure allora seppe trovare le parole giuste: ”I giudici francesi hanno stabilito che non ho fatto nulla, anzi, che non è successo nulla”». [3]
L’amore per l’Italia è sincero: per tornarvi non si è risparmiato umiliazioni, alternate a scatti d’orgoglio che in un attimo gli costavano più di quanto aveva guadagnato in anni di umiltà. [3] Coen: «Tutto era pronto per il gran rientro. Ma forse non tutti lo volevano. C’era chi non si fidava della sua conversione repubblicana. L’occasione per verificarlo fu un lugubre anniversario, quello delle leggi razziali del 1938, sottoscritte dal nonno Vittorio Emanuele III. Il Tg2 volle intervistarlo. Gli chiesero: ”Principe, cosa pensa di quella firma che suo nonno appose sotto il decreto delle leggi razziali volute dal Duce? Non crede che sia giusto scusarsi?”. Vittorio Emanuele arrossì come sempre gli capita quando si trova in difficoltà. In fondo è un timido. Farfugliò: ”No, perché io non ero neanche nato”. Invece, a dire il vero, era nato l’anno prima, il 12 febbraio del 1937. Ma il punto era un altro: Vittorio Emanuele reclamava da anni il ritorno in Italia, si era persino rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Non riusciva però a sconfessare quel gesto, e quindi la Shoah. In verità, al principe mancava il senso della Storia, un vuoto culturale che lo metterà sempre con le spalle al muro. Provò a rimediare: ”Quelle leggi non erano poi così terribili”. Giustamente scoppiò il putiferio». [13]
Il suo fu un rientro che sarebbe generoso definire trionfale. Cazzullo: «Davanti al Duomo di Napoli lo accolgono con le bandiere dei Borboni: il principe è contestato da destra; ai nostalgici di Franceschiello si uniscono i missini della Fiamma tricolore e i disoccupati organizzati; al grido ”traditori, jatevenne” i Savoia guadagnano la cappella di San Gennaro da un ingresso secondario, tra fumogeni e getti d’acqua. Ugo D’Atri presidente della guardia d’onore del Pantheon tenta di reagire e innalza le insegne sabaude; gliele strappano e le bruciano sul sagrato. Lo stile dei principi è quello di Antonio Fazio, l’inviato delle Iene Enrico Lucci viene malmenato dalla scorta. Eppure qualcuno cominciava a prenderlo sul serio, il re mancato. La sera di quello stesso rocambolesco 15 marzo 2003, a Napoli, trecento aristocratici lo attendevano in piedi al San Carlo. Il lungo applauso commosse il principe». [3]
Adesso lo scontro è tra innocentisti e colpevolisti. Vittorio Feltri: «Sarà vero quello che gli attribuiscono? Le carte dicono cose orrende da magnaccia e da porcone e noi stentiamo a credere». [14] Il movimento borbonico: «Buon sangue non mente» [15] I monarchici filo-Savoia: « un nuovo caso Tortora». Emanuele Filiberto: «L’unica cosa che mi consola è che tutto questo viene dal pm Woodcock, che di casini - mi risulta - ne ha fatti più di uno». [16] L’ex ministro Maurizio Gasparri: «Da Cossiga in giù! Lui, le inchieste, le fa prendendo la guida Monaci, incrociando Madre Teresa di Calcutta con David Beckham, il Papa con il gatto Silvestro e questa volta un Savoia con il portavoce dell’ex ministro degli Esteri». [17] Dario Del Porto: «Nato in Inghilterra, padre britannico, docente dell’Accademia navale di Livorno, e madre napoletana, Woodcock può considerarsi partenopeo a tutti gli effetti. Studi classici al liceo Umberto, sposato con una ragazza di Napoli che attualmente lavora come giudice a Lucera, entra in magistratura nel 1997. Svolge il tirocinio come pubblico ministero con l’allora pm Arcibaldo Miller, il capo degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia appena riconfermato nell’incarico dal guardasigilli Clemente Mastella. Alla Procura di Potenza arriva in prima nomina. E fa immediatamente parlare di sé per le sue inchieste. Clamorose, dirompenti. Ma anche discusse». [18]
Henry John Woodcock è un nome difficile da dimenticare. Vittorio Feltri: «Non solo perché inglese ma anche per il significato, ha che fare se non erro col cazzo». [14] Mattia Feltri: «Woodcock è un pubblico ministero che parla poco. Quando parla, dice cose così: ”Sono un cinico che ha ancora voglia di illudersi”. Da cinico con voglia di illudersi, dice anche: ”Noi che viviamo in tribunale siamo uomini fortunati perché, senza pagare il biglietto, abbiamo un posto in prima fila nel teatro della vita”. Il suo, quantomeno, è un teatro molto ben frequentato». [19] Marco Imarisio: «Possibile che questa volta la sua indagine si riveli di granito, ma va detto che i precedenti non sono tutti incoraggianti. Quando hanno a che fare con Woodcock, i garantisti ad oltranza apparecchiano il banchetto. Nel dicembre 2003, per dire, si limitò a chiedere l’arresto di: Tony Renis, cantante; Anna La Rosa, giornalista, anche se l’avviso di garanzia la definiva ”soubrette”; Nicola La Torre, politico all’epoca portavoce di Massimo D’Alema; Sergio D’Antoni e Franco Marini, ex segretari Cisl e anch’essi politici dalle diverse fortune. Varie ed eventuali, finirono nell’inchiesta anche due ministri, Antonio Marzano (Attività produttive) e Maurizio Gasparri (Telecomunicazioni), l’ambasciatore Umberto Vattani - che alla fine è stato davvero rinviato a giudizio per peculato per quei fatti, ma da altra procura -, ed il ”noto” Flavio Briatore, così veniva definito, ”noto”. Furono i suoi carabinieri a spiegargli che Telecamere era un programma leggermente diverso dal Grande fratello, e che Tony Renis non era il marito di Rita Pavone. Woodcock ammette tranquillamente di non avere tempo per guardare la televisione e ascoltare musica d’antan. La richiesta di misure cautelari del 2003 costituisce indubbiamente un unicum della giurisprudenza italiana, un’agile lettura di 7.856 pagine, ma non ebbe grande successo, e degli arresti non se ne fece nulla». [20]
Nonostante l’infausta sorte, quell’inchiesta dice molto della personalità di Woodcock, «magistrato moralizzatore se ce n’è uno». Imarisio: «Partì per dimostrare l’esistenza di una associazione a delinquere che ne faceva più di Bertoldo, dagli appalti per le pulizie degli uffici, alla compravendita internazionale di idrocarburi, alla riscossione di crediti fiscali. Scivolò subito nell’analisi sociologica del generone romano, il solito sottobosco di amicizie millantate, clientelismo e regalie abnormi. ”Mercimonio”, ”logica dello scambio”, ”baratto”, furono i savonaroleschi termini usati per descrivere quel mondo, citando come prova di corruzione anche ”forniture di pesce fresco per alcune centinaia di Euro”, articoli di abbigliamento, oggetti preziosi regalati da aspiranti playboy ad aspiranti veline. Il Gip fece notare che oltre allo sforamento della competenza territoriale c’era anche una impropria valutazione penale di storielle non certo edificanti, ma attinenti alla presunta dolce vita romana e alla sfera privata dei suoi protagonisti». [20]
La domanda più diffusa nelle redazioni, quando spunta Woodcock, è: «Ma Potenza che diavolo c’entra». [19] Imarisio: «’Dottore, lei è proprio forte. Se per sbaglio il Papa passa di qua, fate arrestare pure lui”. Ogni tanto, Henry John Woodcock confessa di non capire se le battute dei marescialli che compongono la sua squadra di polizia giudiziaria siano frutto di adulazione o sonora presa per i fondelli. Piazzata com’è in mezzo ai boschi della valle del Basento, Potenza è bella. Ma con tutto il rispetto, non è New York. E neppure Roma o Milano. Da quando in città è arrivato il giudice Woodcock, invece si balla che è un piacere, sembra che ogni intrigo, ogni cospirazione abbia la Basilicata come inevitabile snodo». [20]