La Repubblica 11/06/2006, pag.42 Jenner Meletti, 11 giugno 2006
Zavattini, la biblioteca segreta. La Repubblica 11 giugno 2006. Luzzara. Rafael Alberti, prima di inviare al «su amigo» Cesare Zavattini la raccolta di poesie Poeta en la calle, il poeta nella strada, ha disegnato sul libro anche una colomba
Zavattini, la biblioteca segreta. La Repubblica 11 giugno 2006. Luzzara. Rafael Alberti, prima di inviare al «su amigo» Cesare Zavattini la raccolta di poesie Poeta en la calle, il poeta nella strada, ha disegnato sul libro anche una colomba. «R. Alberti-65», annuncia la firma. Salvatore Quasimodo ha scritto la dedica con il pennino intinto in un calamaio. «A Zavattini con molto affetto, il tuo Quasimodo. Agosto 1938». I bibliofili farebbero pazzie, per questo libro con copertina ricoperta di stoffa color bordeaux scuro: «Edizione su carta speciale in trenta esemplari numerati da 1 a 30». Quella inviata all´amico di Luzzara è la numero 6. C´è anche una delle poesie più note del poeta. «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera». Umberto Eco invia il 5 gennaio 1977 una riedizione di Opera aperta, «forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee». «A Zavattini - scrive nella dedica - in dono per il mio quarantacinquesimo compleanno, a lui sempre più giovane di tutti noi». Italo Calvino, nel 1957, regala una copia de Il barone rampante. «A Zavattini, dal suo aff. mo Calvino». C´è uno sgabuzzino ancora pieno di tesori, nell´ex asilo comunale di Luzzara trasformato in biblioteca comunale. «Siamo al lavoro da due mesi e ancora non abbiamo aperto tutti gli scatoloni. Per ora abbiamo visto milleduecento libri: circa la metà hanno una dedica a Zavattini e sono in questo armadio. In questi scaffali ci sono altri seicento libri senza dedica. Pensiamo che chiusi negli scatoloni ci siano altri settecento volumi». «Noi pensavamo - raccontano Vanni Marchetti, direttore della Fondazione Un Paese, e Roberto Scardova, consigliere della stessa fondazione - che Zavattini avesse mandato qui soprattutto enciclopedie e altri volumi della Bompiani, della quale è stato direttore generale. E invece ci siamo trovati fra le mani libri preziosi con dediche che spiegano i rapporti fra il nostro Cesare e centinaia di scrittori e poeti del secolo scorso. Abbiamo davanti anni di studio». Nato nel 1902, Cesare Zavattini resta a Luzzara soltanto per sei anni. Studia a Bergamo, Roma, Alatri, Parma e torna solo nel 1955, quando scrive i testi de Un paese, con le splendide fotografie dell´americano Paul Strand. un ritorno a casa che si ripeterà per decenni, nonostante gli impegni di lavoro a Milano, Roma e all´estero. «Circa quarant´anni fa - scrive nel 1955 - a scuola il mio professore leggeva in una lettera latina del Petrarca che lui passò da Luzzara, la infamava come un paludoso paese di rane e di zanzare. L´emozione fu tanto grande che balzai in piedi gridando: io sono di Luzzara». Del resto, come non innamorarsi di un paese in riva al Po dove «le coppie verso sera vanno a fare l´amore sotto i salici alternando i baci agli schiaffetti che si danno sulla faccia per ammazzare le zanzare»? «Solo prendendo in mano i suoi libri - dicono i dirigenti della fondazione - abbiamo compreso quale fosse il legame fra Zavattini e Luzzara. Era un direttore editoriale, conosceva il valore di un libro pubblicato in trenta copie e autografato da Quasimodo. Ma voleva che la sua gente avesse la possibilità di poter leggere i libri che per lui erano stati importanti. Ha cominciato a mandarli a metà degli anni Cinquanta, quando a Luzzara si faceva ancora la fame e i libri erano un lusso per pochi». Ma i fondi per la cultura sono sempre scarsi, e i libri sono stati dimenticati per decenni. «Per il suo paese Zavattini si è dato da fare in ogni modo. Ha voluto e organizzato il museo dei naif, e nel 1953 ha messo in piedi "Luzzara che ride", un concorso di barzellette. C´era pure Alberto Sordi. Gli piaceva portare qui le persone famose. Una volta è andato al bar della piazza e aprendo la porta ha detto: «Ragass, c´è Vittorio De Sica». «E chi el?», e chi è? risposero i vecchi impegnati nella scala quaranta. Sapevano benissimo chi fosse il regista, ma qui la gente è fatta così. Anche Zavattini avrebbe risposto in quel modo, se qualcuno avesse disturbato la partita». L´armadio dei libri con dedica è una miniera. Gianni Brera manda il romanzo Il mio vescovo e le animalesse dove si racconta di «un incesto, un parricidio, un caso di palese poligamia...». «A don Cesare - scrive nella dedica - con la giuliva coscienza del cavedano che s´inchina allo storione; e molto affetto, Giouan Brera, 13-1-84». Il primo libro inviato da Sibilla Aleramo è Andando e Stando, «edito a Roma nell´estate 1942-XX» ed è una ristampa del testo di vent´anni prima, «con pagine scritte nel tempo successivo non mai raccolte in volume». «A Cesare Zavattini l´amica Sibilla Aleramo». I tempi cambiano, gli anni non si scrivono più con i numeri romani e nel novembre 1956 la scrittrice invia Luci della mia sera, pubblicato dagli Editori Riuniti. «A Cesare Zavattini - questa l´ultima dedica - all´amico geniale e al suo grande cuore, l´ottuagenaria Sibilla Aleramo». Ci sono anche scrittrici che mandano dediche con dichiarazioni d´amore. «All´amato Cesare Zavattini, che ha perso del tempo per me nel momento in cui il tempo gli è più prezioso. Non voglio dire che ti sono grata e ti voglio bene, ma senza infingimenti ti dirò che TI AMO». Segue disegno di cuore trafitto da freccia. Correva l´anno 1976, e la scrittrice ancora appare nei salotti della tv. Tutti i suoi libri, comunque, sono stati spediti a Luzzara. Legge di tutto, Cesare Zavattini, ma appunti e note riguardano soprattutto la storia e la politica. Sottolinea alcuni passi del testo di Giorgio Bocca Il caso 7 aprile-Toni Negri e la grande inquisizione e annota: «La violenza? Vedremo, ma è sempre un lavoro elitario! Alla larga! La massa è parola vuota se non la si organizza a essere se stessa, cioè non più massa. La massa è solo un punto di passaggio. La violenza non è pietisticamente esclusa a priori. da lavorare altrove e poi vedere che ne discende». Chiosa a lungo un libro di Alberto Asor Rosa: Thomas Mann o dell´ambiguità. «La borghesia intiera - scrive il professore -, come principio di una superiore civiltà spirituale, si condanna con le sue mani nella figura del suo più illustre rappresentante, l´artista». Zavattini non ne è convinto e scrive: «Ma è vero che la borghesia in effetti demanda all´artista una sua superiorità?». E quando Asor Rosa ricorda che «volgarità» è parola frequente negli scritti di Mann, Zavattini fulmineo annota: «W la volgarità». Luigi Longo e Vittorio Vidali gli inviano i loro libri. Pietro Ingrao, sotto il titolo di Masse e potere, scrive al «carissimo amico Cesare»: «Francamente sarei molto contento se qualche pagina di questo libro gli piacesse un poco, e se no pregandolo che perdoni alla buona volontà». Ringraziamenti da tutto il mondo arrivano per l´impegno «politico» di Zavattini, ad esempio «per l´aiuto in favore degli amici democratici catalani». La politica (anche se non era iscritto a nessun partito) lo appassiona davvero. Legge, sottolinea, commenta come uno studente prima dell´esame un saggio di Domenico Carella, Fascismo prima, fascismo dopo, Armando Armando editore 1973. «L´uomo di oggi - scrive il Carella - appare come un animale d´armento. Almeno così lo ritraggono i collettivisti: va quindi, secondo loro, coltivato, diretto, guidato. Va soprattutto, organizzato». L´uomo che per la prima volta disse «cazzo» alla radio, con l´inchiostro rosso scrive un commento altrettanto sintetico: «Stronzo!». Ma ci sono libri che fanno pensare alle cose profonde. Il non credente Zavattini legge La morte di Dio di G. M. Bertin. In ultima di copertina scrive con la stilografica: «Gesù: i malati perché li crei? Per inno al dolore?». Altri messaggi sono un abbraccio. Ignazio Buttitta, autore di Io faccio il poeta, scrive al «compagno, amico, fratello Cesare, che tutto quello che vede ne fa pane per gli altri». Il pane, quello comune, è davvero importante, per Zavattini anziano, che ricorda il profumo del forno di Luzzara. Una sera parte all´improvviso da Milano per andare a comprarlo al paese: «Mi sono svegliato al mattino con il letto pieno di briciole». Da Roma ogni tanto chiedeva aiuto. E la federazione del Pci di Reggio Emilia (Zavattini non era iscritto ma nel 1955 aveva vinto il premio Lenin per la pace) mandava "al biond", il biondo, l´autista delle federazione, a comprare il pane al Luzzara per poi portarlo nella Capitale. Luzzara è cambiata ma non troppo. Gli extracomunitari sono il quindici per cento della popolazione, e la biblioteca Zavattini è frequentata soprattutto da bambini nati da genitori dello Sri Lanka, dell´India, del Bangladesh. Ma chi è arrivato da lontano non ha cancellato il paese, ha solo aggiunto la propria presenza. I vecchi continuano ad andare in bicicletta e a guardare, davanti al bar, chi passa per strada. «L´ora più bella di Luzzara - scriveva Zavattini - è mezzogiorno e prima del tramonto, la piazza dal quasi silenzio cambia a tutto un suono di campanelli di biciclette che dura un quarto d´ora perché quelli che staccano dal lavoro passano a dare un´occhiata alla piazza, le ragazze scappano di casa con la bicicletta e attraversano il paese suonando il campanello per farsi vedere e i ragazzi saltano sulla bicicletta e gli corrono dietro». Al ristorante Nizzoli, a Dosolo, sull´altra riva del Po, ci sono le poesie di Zavattini scritte sul menù e ancora si servono i piatti inventati da lui, come il sugo d´uva con zabaione e vino bianco. «A lui piaceva il risotto con la zucca e lo imponeva a tutti i suoi commensali», dice Arneo Nizzoli. Risotto per Attilio Bertolucci, per Mario Soldati, Davide Lajolo, per Alfonso Gatto che si era perso nella nebbia ed arrivò all´appuntamento con Zavattini alle tre della notte. Tutti all´ultimo tavolo in fondo alla prima sala. «Sono diventato suo amico. Sono andato a trovarlo a Roma quando già stava molto male e aveva una lunga barba bianca. Gli ho portato un cesto con il nostro pane e il salame all´aglio. Una volta mi fece preparare un salame alto un metro e quarantacinque, per mangiarlo poi con gli amici. In aereo lo tenne in piedi, fra le gambe. Chi era con lui mi raccontò che rideva come un bambino». Jenner Meletti